di: Umberto Rovelli 

Umberto Rovelli (Bologna, 1962). Laureato in Architettura, dal 1996 al 2018 è socio di Blue Klein, web agency impegnata nel campo multimediale per la promozione della cultura del progetto su Internet. Dal 2005 dirige la rivista IdeaMagazine.net. Dal 2008 al 2016 cura gli aggiornamenti del web ADI Toscana progettato da Blue Klein. Socio ADI dal 2010 al 2015, è curatore dei volumi MuDeTo Collection I.-V. (MuDeTo, Firenze 2014-'21), Mauro Pasquinelli Designer (Bandecchi&Vivaldi, Pontedera 2013) e Interviste sul Progetto (Franco Angeli, Milano 2011). Ha collaborato con le riviste “Op. cit.”, “Juliet Design Magazine”, “Paesaggio Urbano”, “ReportBio”, “Firenze Spettacolo”. Ha pubblicato contributi in: Adriano Piazzesi (Pontecorboli, Firenze 2016); Vincenzo Missanelli. Opere con un'antologia critica (Bandecchi&Vivaldi, Pontedera 2015); Antonio Possenti un lungo viaggio (Pacini Fazzi, Lucca 2013); Adriano Piazzesi. Arte nel silenzio (Polistampa, Firenze 2012); Massimo Mariani. Progetti 1980 - 2005 (Verba Volant, London 2005); Labyrinthos (Alinea, Firenze 1994). [x]

Sei variazioni sul tema “Lesena”

Per la 50a acquisizione MuDeTo, ricorriamo a un prodotto non solo inconsueto e innovativo, ma persino emblematico di una sorta di way of life progettuale e professionale di marca decisamente avanguardistica che, come cercheremo di esemplificare nel corso della trattazione, ben lungi dal costituire un’esclusiva del suo autore – il fiorentino Luigi Trenti –, mette in luce quello che, forse, è il più spiccato tratto comune – con allegata nemesi comunicativa – a un numero assai cospicuo di soggetti e gruppi appartenenti a quel collettivo progettuale esteso – costituito sia da realtà produttive intermedie che da collaboratori fondamentali (tecnici, esperti di settore, artieri, terzisti sperimentatori, ecc.) – sovente attivo in veste anonima negli innumerevoli settori del prodotto industriale ideato e realizzato in ambito regionale.

La piantana a parete Lesena rappresenta dunque non solo un prodotto specifico e concreto, ma per certi versi costituisce l’esempio palmare di come una galassia professionale – un tempo contesa e in bilico fra suggestioni d’arte e artigianato – sia oggi, compressa da non certo lungimiranti strategie di marketing attente a evidenziare più l’epidermica ostensione dei prodotti che approfondirne i nessi con pratiche fruitive e innervature costruttive. E come molte figure appartenenti a tale ampiamente sottostimato universo professionale, in risposta alla distrazione comunicativa del circuito seduttivo del settore di volta in volta considerato, abbiano comunque preferito cimentarsi nel replicare responsabilmente al comune imperativo implicito nella grande serie: il prezzo accessibile della qualità.

Impegno che ha avuto come principio metodologico e operativo il confronto aperto col limite confidando nelle potenzialità dischiuse da quella laconicità formale che, come afferma Eraclito a proposito dell’oracolo di Delfi «non dice né nasconde, ma indica»[01].
Come ha spesso mostrato nei suoi progetti uno dei più grandi “maestri sullo sfondo” espressi dalla regione – Adriano Piazzesi –, la modalità plastica è un’arte sapienziale attraverso la quale ci si approssima al mistero dell’altro più ascoso, celato e inattingibile, dal quale ogni illazione, fabula e senso può inesauribilmente emergere. E nella forza del levare, del ridurre a quel quid di elementarmente necessario, ai confini del percettibile, anche Lesena è partecipe dello stigma inter-generazionale che ha portato gli autori di questo territorio a rasentare l’archetipo, approssimandovisi il più possibile quasi a carpire, nel lambito silenzio plastico-espressivo, le seminali modalità e la canonica autorevolezza della classicità seriale.

[01] Eraclito, Sulla natura, fr. 93

Inedita soluzione illuminotecnica a luce indiretta, Lesena è un ibrido tipologico connotato da un profilo plastico a un tempo netto, ben definito e minimale. Un nitore ambiguo che riecheggia nella duplice matericità del corpo scatolare (largo 400 mm, alto 1842 mm, profondo 70, elettrificabile a piacere, con eventuali dimmer e luce d’emergenza in caso di blackout), la cui parte frontale a vista (perlopiù disposta parallelamente a 70 mm alla parte muraria e solo sulla sommità curvata in avanti, fino a 352 mm, tramite calandratura) è realizzata in lamiera di alluminio (grigio satinato o bianco) mentre quella posteriore è in lamiera di acciaio, onde facilitarne il fissaggio a parete. Occultate tra le lamiere e pressoché invisibili dall’esterno trovano sede le sorgenti luminose (indifferentemente alogene, fluorescenti, agli ioduri metallici, ecc.).

Volendo anticipare almeno tre cardini innovativi sui quali il progetto trentiano palesa soluzioni di continuità degne di nota, possiamo segnalare, in estrema sintesi, che la sua lampada da parete non si limita affatto al pur ragguardevole contributo di tracciare (ovvero fondare) un nuovo, comune ambito di progetto. Nel proporre Lesena al pubblico (inaugurando l’incognita macro-area operativa del pannello a parete da terra che, da allora in poi, diverrà condivisa e progettualmente accessibile in diversi settori più o meno contigui all’illuminotecnica), Trenti connota il suo già innovativo prodotto con le modalità ibride di due distinte (e per certi versi opposte) tipologie illuminotecniche: la piantana e l’applique.

Con Lesena siamo quindi dinanzi a un doppio scarto imposto ai canoni mainstream del progetto industriale. Da un lato quello aperto sorgivamente dalla scoperta (o fondazione) di un nuovo “luogo” del progettabile. Sul fronte opposto quello che fonde in un corpo unico due tipi distinti (due specifiche anime) di prodotto in una sorta di unyo mistica dal sentore quasi alchemico e magico. Il che ci porta alla terza ermetica effrazione alla consuetudine tecnico-plastica offerta da Lesena: la spiccata malìa che promana dal quel piano “sospeso” da terra che pare sovvertire persino la legge di gravità e che stempera l’algido esprit riformatore della lampada con enigmatiche (per non dire mistiche) tonalità votate perlopiù a “risarcire” (proprio come accade in ogni atto fondativo) l’azzardo provocatorio innescato dal progetto stesso nei riguardi della resilienza delle relazioni coralmente attive in una comunità e della tenuta delle norme inter-generazionali in vigore nel mondo.

I. Lesena c’est moi! O del nomadismo tipologico e settoriale

Sicuramente avvertito del pericolo insito nella profilazione indeterminata – di un oggetto come di una carriera professionale –, già vent’anni or sono, Trenti affermava: «il design system ti chiama e ti cerca soprattutto quando riesce a identificarti in un ruolo preciso»[02]. Se è ben vero che esistono validissimi professionisti che hanno scelto un settore progettuale, se non specialistico abbastanza circoscritto, per esprimere al meglio la propria eccellenza, il percorso professionale di Luigi Trenti appare invece assai meno lineare o nettamente assegnato a un ambito particolare.

[02] Luigi Trenti, Del progetto (e del designer) versatile, in Umberto Rovelli (a cura di), Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net, Franco Angeli, Milano 2011

A cavallo tra i due millenni, l’architetto-designer passa dal settore illuminotecnico con Targetti [03] alle strumentazioni elettromedicali per Seac – realizzando il fotometro da banco Alisei (1998) e l’analizzatore elettronico Slim (1999). Successivamente, per Cisal realizza il pioneristico diffusore a snodo doppio Poker (2002) e per Pineider, progetta le penne Egosphere (2003) e Jolly (2003). Con Metrocubo (2004), ideato per Ciatti a Tavola, si accosta al tema della cucina creando una sorta di isola completamente attrezzata di ingombro minimo coinvolgendo Whirlpool e rubinetteria Gessi. In ogni caso, e anche più tardi, pur virando i settori e gli ambiti tipologici d’intervento – ad esempio col più recente misuratore di velocità Autovelox 106 (2013) per Sodi Scientifica e con la matita perpetua Filum (2019) per Pininfarina Segno – ottenendo risultati di sicuro interesse e riconoscimenti a livello internazionale.

Luigi Trenti, Alisei - fotometro da banco, 1998, by SEAC | © SEAC, courtesy Luigi Trenti [x]

Luigi Trenti, Alisei - analizzatore elettronico, 1999, SEAC | © Seac, courtesy Luigi Trenti [x]

Luigi Trenti, Poker (Kitchen - LC000530) - miscelatore monocomando snodato, 2002, by Cisal | © Cisal, courtesy Luigi Trenti [x]

Luigi Trenti, Egosphere - penna stilografica, 2003, Pineider | © Pineider, courtesy Luigi Trenti [x]

Luigi Trenti, Jolly - penna stilografica, 2003, Pineider | © Pineider, courtesy Luigi Trenti [x]

Luigi Trenti, Metrocubo - isola attrezzata, 2004, Ciatti a Tavola (con Whirlpool e rubinetteria Gessi) | © Ciatti a Tavola, courtesy Luigi Trenti [x]

Luigi Trenti, Autovelox 106 - misuratore di velocità, 2013, Sodi Scientifica | © Sodi Scientifica, courtesy Luigi Trenti [x]

Luigi Trenti, Filum - matita perpetua, 2019, Pininfarina Segno | © Pininfarina Segno, courtesy Luigi Trenti [x]

[03] Dove, pur abbastanza giovane, è responsabile design e ha modo di definire progettualmente almeno uno dei componenti del sistema modulare di illuminazione Mondial F1, un prodotto insignito nel 1996 di un Compasso d’Oro un po’ ingenerosamente attribuito al solo Paolo Targetti, in quanto, come lo stesso Trenti segnala, «quel Compasso d’Oro doveva essere assegnato dall’ADI alla Targetti Sankey Spa come produttore e come design all’Ufficio Tecnico Targetti Sankey: i protagonisti di quel progetto che è iniziato con il progetto del Mondial nel 1993, sono stati in ordine cronologico: Roberto Nesti, Luigi Trenti, Gino Cipriani e Piero Landini» (Luigi Trenti, Del progetto (e del designer) versatile, in Umberto Rovelli (a cura di), Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net, Franco Angeli, Milano 2011.

A fronte del nutrito elenco di soluzioni di continuità vissute professionalmente dall’autore va però rilevata una costante comune tra gli ambiti produttivi (o categorie di prodotto) con cui l’autore si è cimentato nel tempo. Una sorta di algida invariabile si rinviene, infatti, nella componente tecnologica presente nei settori solcati con successo, ove, cioè, il quoziente funzionale tende a prevalere su quello estetico e i mercati di riferimento sono perlopiù dominati da target composti da molto competenti e smaliziati fruitori. Settori che potremmo definire di frontiera e per i quali uno dei tabù della modernità – la “decorazione” – ha resistito più a lungo che altrove, solo di rado assurgendo a un ruolo “strategico”, in grado cioè di sopperire alla reale mancanza di progetto – com’è invece accaduto assai più di frequente in varie frange dell’arredo, dell’oggettistica e del furniture, specie nell’ultimo ventennio. Quella di Trenti è quindi fin dall’inizio una scelta di campo coerentemente adeguata a un “sentire progettuale” sinceramente “tecnico-evoluto” votato cioè a innovare stabilendo primati, sperimentando vie inesplorate. Scelta che talvolta ha comportato plateali misconoscimenti nonostante i suoi interventi progettuali non di rado abbiano contribuito a individuare e dischiudere scenari produttivi inusitati, influenzando sensibilmente il lavoro dei colleghi contemporanei o meno.

L’episodio di Lesena è così sintomatico (insieme al precedente proiettore Mondial (1996) e ai successivi Poker e Jolly) di almeno due aspetti dell’approccio di Trenti al progetto: a) un’inclinazione acquarianamente onnivora dell’autore per l’impermanente universo della tecnologia (la sua abilità ad avvalersene con proprietà intuendone prima di altri l’opportunità e l’efficacia di trasferimenti di settore); b) la valenza erga omnes che, volenti o nolenti, il tenore tecnico-sintattico dell’innovazione progettuale apportata dall’autore spesso comporta. Il portato di originalità che si riscontra nell’atto maieutico che dà luce al pannello a parete da terra – ambito di cui Lesena è esemplare antesignana – si rivela, perciò, un credito progettuale il cui riscontro appare difficilmente esigibile in termini concreti. Ma ciò non toglie che altrettanto concretamente sia verificabile sul mercato dell’epoca un proliferare ex post di prodotti, che, come osserva lo stesso Trenti, potrebbero essere etichettati con il termine di “Stile Lesena” o “Lesena Style”.

Luigi Trenti, Mondial - proiettore, 1996, Targetti | © Targetti, courtesy Luigi Trenti [x]

Accennando a questo fenomeno – rilevabile da chiunque scorrendo anche sommariamente le principali riviste dedicate al progetto furniture e industriale in genere del periodo – l’autore rimarca come «quello di Lesena» sia «stato come una sorta di suggerimento subliminale al mondo del progetto: è apparsa in fiere, è stato il primo prodotto con quelle caratteristiche a essere premiato, è stata esposta in mostre e pubblicata in riviste, suscitando curiosità e ammirazione. Il tutto in un tempo tutto sommato relativamente breve; quindi è rimasta nascosta in un catalogo di prodotti tecnici e commercializzata in sordina per un ventennio sul canale dell’architetturale. Per questi motivi forse si spiega il progressivo e spontaneo allineamento al suo concetto formale di varie tipologie di oggetti dell’ambiente domestico. Nessuno aveva la percezione di plagiare realmente un prodotto, ma semplicemente avvertiva la necessità di allinearsi a una tendenza che “questa lampada che ho visto al Salone” proposta da “un’azienda di cui non ricordo bene il nome” aveva espresso per un po’ di tempo al pubblico»[04].

[04] Luigi Trenti, Lo Stile Lesena. Breve storia di un fenomeno inspiegabilmente ignorato, in Umberto Rovelli (a cura di), MuDeTo Collection VI. (2022-’23), MuDeTo Edizioni, Firenze 2023 (vedi anche: sezione Testimonianze più sotto in questa stessa pagina).

II. Fondare nuovi territori del progettabile

Specificando meglio la natura di influencer svolta in quegli anni da Lesena, Trenti aggiunge che «in effetti non si sono mai registrate copie servili del prodotto, ma tante sono state le reinterpretazioni e variazioni sul tema, ormai trend conclamato, anche quando forse rappresentava quasi una forzatura»[05]. Sintesi senz’altro pertinente, ma quel che, forse, non viene sufficientemente colto in questa narrazione – per così dire, “meteorica” – intorno al prodotto, è la forte carica meta-oggettuale di Lesena, un prodotto che, proprio in quanto primo esempio rinvenibile di una macro-area d’intervento progettuale – il citato elemento pannello parallelo a parete – non è solo un prototipo, ma un prodotto decisamente connotato in senso allegorico, la cui natura versatile e indefinita, tornando a Eraclito, “descrive” presentemente un qualcosa e altresì “indica” un orizzonte, proietta innanzi a sé una prospettiva ancora indeterminata proprio perché ancora tutta da esplorare.

[05] Luigi Trenti, Lo Stile Lesena. Breve storia di un fenomeno inspiegabilmente ignorato, in Umberto Rovelli (a cura di), MuDeTo Collection VI. (2022-’23), MuDeTo Edizioni, Firenze 2023 (vedi anche: sezione Testimonianze più sotto in questa stessa pagina).

In quanto primo esemplare di un’inedita modalità progettuale a venire, Lesena è così: da un lato, l’oggetto specifico e puntuale realizzato da Martini; dall’altro la soglia aperta su una vasta prateria dischiusa – come detto erga omnes – a partire dalla singolare messa a fuoco dell’autore su un nuovo nucleo relazionale, avvertito come sondabile progettualmente. In questo senso, come detto, il riscontro di un tale credito progettuale si rivela inesigibile in termini concreti. E proprio in ragione del non comune connotato categoriale (o meta-progettuale) dell’atto maieutico trentiano (l’autore in primis scova – ovvero inventa – l’ambito progettuale sul quale, poi, il progetto si applica), la terra incognita emersa non è più in alcun modo presidiabile sin dal primo apparire di Lesena. Dalla scoperta del neonato territorio, nulla può impedirne l’esplorazione (più o meno efficace) da parte di altri. Per sovrammercato, tutto quel che ha caratura sintattica, categoriale (o meta-progettuale), ha requisiti formali minimi, per non dire approssimativi. Rivolto a definire la cornice (mentale) dell’agire più che sancire puntualmente i protocolli di una pratica o le sue minime ritualità esecutive, la natura dell’apporto innovativo è concettuale (o, come detto, allegorico), ergo immateriale, priva di un reale profilatura e, di conseguenza, non facilmente memorabile. Ed è anche per tale ragione che persino i primi epigoni nell’adottare il nuovo campo di azione ben presto dimenticano che vi fu un tempo in cui tale alveo d’applicazione dell’ingegno progettuale non esisteva affatto.

III. Ortodossie a venire

Come segnalato anche altrove [06] l’aspirazione di ogni innovazione d’impronta sistemico-sintattica (e ciò vale persino per quelle di tenore rivoluzionario) non risiede tanto nel distinguersi o emergere rispetto al contesto, quanto piuttosto nel definire e rendere stabili nuove corrispondenze, ossia instaurare nuove relazioni gerarchiche, somiglianze e familiarità tra elementi del contesto: in altri termini, essa mira al ripristino di una ortodossia a venire. Fatalmente, quindi, l’incidenza e il successo dell’innovazione considerata tende ben presto a evolvere e trasfigurare in tratto di sfondo. Divenendo filamento indistinguibile di un tessuto operativo comune, accorgimento acquisito, precondizione diffusa, modalità base per i progetti futuri trasformandosi finalmente in parte integrante (anonima e impersonale) di nuove architetture di prodotto dominanti.

[06] Si veda la nostra introduzione al volume MuDeTo Collection IV. (2017-18).

Il rischio di labilità memoriale sotteso a un approccio consapevolmente sistemico-sintattico al progetto industriale si deve quindi essenzialmente a due ragioni: a) da un lato gli esiti progettuali si palesano esili nelle aggettivazioni decorative, cromatiche, morfologiche; b) l’impegno sul fronte normativo-grammaticale conduce fatalmente a realizzare un tipo assai peculiare d’innovazione, il cui tenore “strutturale” è perlopiù votato e finalizzato a definire nuovi standard di settore. Due tratti che contrastano evidentemente con l’emersione e la diffusa riconoscibilità delle aziende e degli autori coinvolti e responsabili del contributo (sovente pionieristico) di tanto design regionale.

Da quanto detto, al fine di ristabilire un’equità storica, colmare omissioni nonché riequilibrare distorsioni (più o meno involontarie) ormai stratificatesi nel tempo, risulta evidente quanto sia importante il ruolo degli stessi protagonisti e dei testimoni di prima mano di queste più o meno rilevanti “fratture” o deviazioni storiche in ambito progettuale. Come rileva l’ampia e puntuale memoria di Luigi Trenti riportata più sotto, il valore testimoniale degli artefici è altissimo specie sotto il profilo culturale perché pretendere quanto più sopra definito l’inesigibile non è tanto un (comprensibile) desiderio individuale, ma rappresenta un imperativo che inerisce a una coralità di contributi – il già citato collettivo progettuale esteso – che, nel nostro caso, coinvolge e riguarda, sia diacronicamente che sincronicamente, l’intera regione. Infatti, quello appena descritto sommariamente non riguarda tanto una specifica anomalia esistenziale bensì pertiene a molti stakeholder del sistema design toscano, mettendo in luce un ulteriore tratto che accomuna il designer fiorentino a numerosi progettisti e imprenditori-designer toscani.

Dei primati stabiliti col brevetto della prima di macchina professionale per caffé “espresso” con caldaia orizzontale e gruppi posizionati in linea così come della prima macchina concepita per funzionamento con 2 caldaie – la Marus (1938) e la serie “GS” (anni 60) progettate da Giuseppe Bambi per La Marzocco – s’è ormai persa ogni traccia e riscontro che non siano quelli (benemeriti) promossi dall’azienda mugellana. Entrambe le soluzioni sono divenute standard di settore, ma che tale standard riconduca al territorio è un fatto noto a ben pochi. Parimenti, sia con Audioguida (1959) che con Autovelox (1966), i rispettivi geniali inventori/produttori (Giovanni D’Uva per D’Uva e Fiorello Sodi per Sodi Scientifica) hanno saputo creare oggetti-tipologia che pur entrando stabilmente nei dizionari non vengono affatto percepiti come contributi regionali.

Analoga la sorte riservata ad altrettanto poco noti keystone progettuali. Come, nel campo dei diffusori acustici, la gamma KH immessa sul mercato da Alessandro Tatini con la sua K-array utilizzando l’innovativa Slim Array Technology, o le rilevanti innovazioni apportate nel settore della rubinetteria da Giampiero Castagnoli – una per tutte il dispositivo Pure Water System (2002), ideato per Signorini, che contrasta la crescita di carica microbica nell’acqua – o ancora quelle escogitate da Dante Del Vecchio per Visconti nel settore degli strumenti per scrittura: il sistema di riempimento High Vacuum Power Filler (1993), il Calamaio da viaggio (1997), il sistema a doppio serbatoio Double Reservoir Power Filling (1998), il pennino Dreamtouch (2010) e il rivoluzionario pennino tubolare Smartouch (2012).

Il tratto comune a tutti questi esempi – come detto, una sorta di fil rouge regionale – consiste nell’esilità della caratterizzazione formale con cui, di volta in volta l’innovazione s’incarna nei prodotti che ne sono gli alfieri aurorali. Quest’ultimi, intesi come doni, “testimoni” da dispensare e condividere più che “trofei” da esibire, manifestano orgogliosamente la stessa magrezza d’eloquio, il medesimo nitore di tratto, la non dissimile pulizia d’esecuzione che emerge al primo sguardo osservando il paesaggio “naturale” e antropico che, come scrive Curzio Malaparte, qui in Toscana è «tutto magro, schietto, preciso, tutto chiaro, tutto in ordine»[07]. Prime formulazioni di un nuovo “genere” la cui riuscita seminale è perlomeno pari all’indigenza espressiva con cui vengono enunciate per la prima volta, molte pietre miliari create in questa terra trovano nell’essenziale modalità elaborativa una via maestra affinché le inevitabili fratture imputabili al loro sorgere vengano celermente risarcite. E sta a tutti noi preservarle dalla damnatio memoriae, serbandone il ricordo nonostante la loro semplicità espressiva, intuendone la tempra miracolosamente sovra-individuale celata sotto la veste francescana: «Poiché anche le cose più semplici, più umili, più ordinarie hanno in Toscana una certa loro virtù, che le fa appunto miracolose»[08].

[07] Curzio Malaparte, Maledetti toscani, Vallecchi, Firenze 1956

[08] Curzio Malaparte, Maledetti toscani, Vallecchi, Firenze 1956

IV. Fondere gerarchie, sovrapporre figure

In Lesena si rilevano così alcuni tratti di un metodo condiviso da non pochi altri autori toscani. Se la prima nota saliente rivelatrice di un comune approccio professionale, si può cogliere sin dalla tempra squisitamente sintattica e meta-progettuale del progetto, nondimeno l’aspetto più immediato e percepibile di quest’ultimo è rivestito dal condensamento tipologico di applique e piantana. Aspetto colto dalle stesse schede aziendali di presentazione di questo prodotto illuminotecnico ibrido e, persino oggi, inconsueto – nonostante quasi tre decenni ci separino dalla sua prima apparizione sul mercato (e l’idea progettuale risalga al 1994). Lesena, infatti, dà luogo e “corpo” a un’inedita tipologia definibile sia come “piantana a parete”, ossia addossata al muro, sia come “applique da terra”, per l’inconsueta dimensione longitudinale (1842 mm) del corpo il cui fondo, se correttamente posizionato, si presenta quasi a ridosso del piano di calpestio (150 mm) senza, però, toccarlo. Un’ambivalenza vieppiù ribadita dall’adozione di un design minimale che, oltre a rendere la lampada perfettamente fruibile in spazi residenziali, uffici e ambienti commerciali, dialogando egregiamente con un ventaglio di stili molto ampio, contribuisce non poco a mantenere inevasa la sua decifrazione tipologica.

La produzione industriale segue le richieste del mercato in vari modi. Nel caso dell’illuminotecnica la gamma produttiva manifesta sovente una progressione di interesse che va dalle applique, alle lampade da tavolo, alle sospensioni fino alle piantane, articolo tra i meno venduti – vuoi per abitudini fruitive, vuoi per costo –, che, in una gamma, costituisce l’ultimo, eventuale, elemento di progetto cui il progettista talvolta accede solo nel caso di un grande riscontro commerciale ottenuto dalla serie nelle tipologie “minori”. In quanto ordito come sintesi degli estremi, Lesena è un curioso compendio dell’intero arco progettuale disponibile al designer, una sorta di apocalittico Alpha et Omega che incute soggezione almeno quanto ammalia e sorprende. Il fascino sottilmente indefinito di Lesena è però anche un beneficio valoriale talmente esile da confinare con l’inavvertibilità, la sua presenza arredativa si approssima al silenzio e, come tale, la sua percezione e apprezzamento necessita di uno sguardo attento, un surplus di cura e meticolosità ricettiva per soppesarne adeguatamente il pregio.

In quanto il suo utilizzo è sinceramente riconducibile anche all’ambito domestico, a rigore, l’ibrida natura di Lesena non dovrebbe nemmeno essere catalogata tra gli apparecchi specificamente “tecnici” bensì tra quelli “decorativi”. Siamo però di fronte a un tale livello di rarefazione formale che appare del tutto improprio risolverne in un senso o nell’altro l’enigmatica caratura borderline. È dunque a cavallo di più vie che sembra legittimo collocare Lesena anche oggi. Né piantana né applique, né di alluminio né di acciaio, né lampada domesticamente “calda” né apparecchio gelivamente tecnico in senso stretto – sebbene di aspetto molto semplificato ed essenziale – a dominante funzionale espressamente creata per illuminare ambienti di lavoro (studi, uffici, negozi, attività commerciali in genere), istituzionali e a vocazione più o meno culturale (musei, teatri, gallerie, ecc.) .

Ambiguità, peraltro, che si rileva persino nel termine adottato per il prodotto – Lesena – che è sì un chiaro omaggio al passato architettonico locale (la cui allusione al persistente nesso tra stilemi classici architettonici e progetto industriale è ironicamente contraddetta dall’autore stesso quando accenna alle assai più prosaiche frequentazioni della “Settimana Enigmistica”), ma si sostanzia nel ricorso a un motivo decorativo del passato che ben al di là di sfociare in mera rievocazione – o, peggio, in scimmiottamento – avviene, come sempre, con paradossale frugalità. Nella forma adottata da Lesena non troviamo nessuna delle demarcazioni che scandiscono in tre porzioni la “lesena classica” (base, fusto e capitello). Vista di fronte la sua planare superficie piatta è smentita solo, nottetempo, dal variare del cono di luce emessa e, diurnamente, della sua stessa ombra proiettata dalla luce naturale sulla parete. Vista di lato la lamiera in alluminio è un unico segno che senza interruzioni si diparte da 15 cm da terra a circa due metri. La base è allusa nello “stacco” che separa il piano metallico dal suolo. Altrettanto velato è il richiamo al capitello ottenuto con la sola flessione (all’altezza di circa 150 cm) impressa alla lamiera, tramite calandratura, che fino a quel punto corre parallela al muro.

Se in questa semplificazione dei segmenti citati c’è, ovviamente, un richiamo al modernismo, nella leggerezza delle libere associazioni e sovrapposizioni di influenze di varia provenienza siamo già più decisamente nella post-modernità, o, meglio ancora, a qualcosa di molto simile all’attualizzazione linguistica consentita ai traduttori di testi appartenenti ai secoli scorsi. Per la compresenza di «superfici curve e spigoli pronunciati», nella «slanciata stilizzazione» di Lesena negli articoli redatti alla sua uscita sono ben colti sia gli echi «minimali» che quelli «new-edge»[09], oltre all’influenza, evocata dallo stesso autore, di proposte architettoniche elaborate oltreoceano – in particolare il Peeling Project (1972) del gruppo SITE. Ma per cogliere l’essenza del lavoro di Trenti non sembra affatto necessario dirimere su quali siano i più o meno persuasivi risentimenti formali rinvenibili nei suoi prodotti. Nei diversi settori in cui si è cimentato, l’autore, ha infatti molto più convintamente inteso proseguire «il solido filone inaugurato dagli elaboratori Elea di Sottsass e arricchito dalle apparecchiature pubbliche di Rodolfo Bonetto, dalle macchine utensili di Giorgio Decorsu, dai veicoli pubblici di Roberto Segoni: quello del design come interfaccia tra la macchina e l’uomo»[10]. E come allievo entusiasta di Segoni, la bellezza di un moderno artefatto, per Trenti è sempre e comunque un’emanazione diretta del valore tecnico-funzionale del progetto, della sua immediata leggibilità operativa, del suo disporsi all’uso con chiarezza e proprietà. Il che spesso comporta un’avvertibile ritrosia nei confronti nella “decorazione” fine a sé stessa.

[09] Finalmente una lampada!, “Lighting”, n° 61, agosto-settembre 2000

[10] D. M., Design con interfaccia, “Ottagono”, n° 142, febbraio-marzo 2001

Dunque anche nel caso di Lesena, più o meno consapevolmente, il carsico disinteresse nei riguardi dell’espressività dell’oggetto, conduce l’autore a evitare doviziosamente ogni forzatura formale gravando la superficie e la volumetria con inutili aneliti plastici. Questa sfera modale, questo “calore” aggiunto – pare affermare l’autore – spetta semmai al fruitore finale, magari guidato sapientemente dell’arredatore. Al progetto industriale compete piuttosto l’orditura di massima, l’accenno a un “luogo a procedere”, ovvero la predisposizione del fondale, della “base ritmica” sulla quale ogni specifico arredo sarà finalmente eseguito, ogni volta con esiti diversi, in un secondo tempo. In questo senso, a questo livello, per così dire, precategoriale, ogni esibizione di gusto, ogni parteggiamento equivarrebbe a una sgrammaticatura, un esubero dal proprio ruolo di “dispensatore” dei mezzi necessari alla futura definizione in loco di quella particolare e specifica soluzione d’arredo scelta dal fruitore finale.

In perfetta coerenza con tale strategico “ritrarsi” dell’autore, Trenti disegna (o, meglio ancora, “scrive”) la sua tipologicamente bifida Lesena adottando l’alfabeto essenziale di una sorta di grado zero della scrittura in cui l’indifferenza allo “stile” e alla “maniera” se, come detto, da un lato esalta l’ambiguità nei riguardi della figura/forma/funzione predominante (come accade, appunto, nelle illusioni ottiche), d’altro canto porta a riconnettere l’essenziale profilo di Lesena a un ulteriore tratto peculiarmente toscano intrecciando, per così dire, in un secondo coerente fil rouge plurisecolare la condensativa ligne claire del progetto industriale pre e post-bellico alla sprezzatura di marca rinascimentale.

Da questo punto di vista, già molte delle precedenti acquisizioni MuDeTo esprimono un’analoga spiccata tensione del progetto a premere, quasi sempre adottando un bassissimo profilo decorativo, sulle soglie tassonomiche che presiedono a delimitare non solo le morfologie ma anche la pertinenza e il ruolo dei singoli oggetti di norma preposti a determinate “funzioni”. Se nel 1970 Pierluigi Spadolini e Paolo Felli con la serie 4750/57 - Fiocco intrecciano in un unicum frattale funzioni di cortina, contenimento, supporto e illuminazione, nondimeno nel 1974 Internotredici, con Quadrone, inventa un imbottito trasformabile soggiorno-letto unico nel suo genere. Se, nel 1988, per definire il metamorfico Europa, Gianfranco Gualtierotti e Alessandro Mazzoni Delle Stelle non possono che adottare, la neutra e “fluida” formula di elementi per divano, un decennio più tardi, StudioBau propone a Matrix International un progetto altrettanto ambivalente di chaise-longue | panca con Curvilinea (1999). Nel 2008, col sistema integrato di bidet e vaso G-Full, Nilo Gioacchini si spinge a interferire con le architetture di prodotto vigenti nel settore bagno. Intorno al 2010 Martinelli Luce propone con Toy – progettato da Studio 4P1B – una “interferenza” tipologica inter-settoriale ibridando lampada e tavolino e, nel 2013, Alessandro Tatini crea un capolavoro assoluto di ridefinizione formale del diffusore acustico realizzando Anakonda KAN200.

V. Décalage espressivi

Fatto non trascurabile, in Lesena l’abbinamento tipologico è piuttosto alluso che realmente posto in essere. Ovvero, rispetto agli esempi citati, quanto è qui condensato progettualmente non determina propriamente una combine a livello reale né si ricorre ad alcun giunto attivabile cineticamente per far sì che tale sintesi si concretizzi materialmente in una sorta di on/off che dia modo al fruitore di accedere a entrambi i territori evocati. Si tratta, al contrario, di una suggestione, ovvero di un’illusione ottica (indotta sia dalla morfologia del prodotto che dalla sua collocazione) volta a porre in essere quel che potremmo considerare, il presupposto (lo sfondo) di ogni possibile interferenza e commistione: una "sospensione del giudizio" – una epoché –, ossia una messa fra parentesi della realtà nella sua datità abitudinaria, nei suoi limiti (arbitrari) e cesure (culturali).

Come detto, la pratica confidente col décalage espressivo fa parte del patrimonio comune a molti protagonisti del progetto in Toscana. E ciò in quanto, spesso intendendo far sì che si verifichino le condizioni per attuare riforme tipologiche, accoppiare funzioni, innescare trasferimenti di campo, o comunque consentire variazioni di scenario non banali nelle modalità d’uso degli oggetti, in fase progettuale occorre in primis effettuare un livellamento dello sguardo nei confronti di strutture e sintassi. Ogni pregiudizio consolidato circa le pratiche e le modalità per effettuarle ha così modo di affievolirsi ed è come se, in termini meta-progettuali, il velo che separa i comparti dell’agire si dissolvesse. Da questo condensamento orizzontante che minimizza i dislivelli tra pratiche diverse, si origina e germina l’opportunità del nuovo e della mezcla che fonde e riaggrega diversamente quel che prima era distinto e separato: perché ogni orizzontamento comporta sia una perdita (temporanea) di sé sia l’accesso a nuovi punti di equilibrio – quanto precari o stabili non è dato sapere.

Tale inversa abitudine a leggere il reale e a pensare altrimenti (che dona al designer un accesso continuo e felice a punti di vista alternativi alla norma), è condivisa da Trenti non solo con altri autori più o meno coetanei – come Riccardo Fattori, Sandro Bessi, Paolo Ulian, Giuseppe Mincolelli, Marco Pisati, Danilo Fedeli, Emanuele Magini, Giovanni Pierantoni – ma, dettaglio non trascurabile, sia con imprenditori-designer di ogni epoca – Guido Panerai, Ferdinando Innocenti, Ernesto Michahelles, Giuseppe Bambi, Giovambattista Moscardini, Giotto Bizzarrini, Paolo Parigi, Paolo Targetti, Fiorello Sodi, Giovanni D’Uva, Paolo Gensini – che con progettisti appartenenti alle precedenti generazioni. A questo proposito (scusandomi anticipamente per le, inevitabili, omissioni) vengono in mente i nomi, purtroppo non ancora abbastanza noti, di Maurizio Tempestini, Aldo Londi, Aurelio Lampredi, Elio Martinelli, Pierluigi Spadolini, Adriano Piazzesi, Giovanni Klaus Koenig, Luciano Grassi, Luciano Nustrini, Roberto Monsani, Mauro Pasquinelli, Emilio Guarnacci, Giorgio Marianelli, Marzio Cecchi, Roberto Segoni, Giulio Lazzotti, Lapo Baldacci, Alessandro Becchi, Giuliano Mazzuoli, Carlo Fontana, Pietro Valboni, Piero Menichetti, Gianfranco Gualtierotti, Carlo Bimbi, Giancarlo Vegni, Roberto Maccioni, Christian Theill, Vincenzo Missanelli; dei gruppi A.R.D.I.T.I., Internotredici; degli studi Archirivolto, Baldanzi & Novelli, Cisotti Laube; ma, in particolare, quello di Nilo Gioacchini più volte distintosi per la sagace anticipazione di trend futuri mettendo a frutto la propria familiarità con l’innovazione tecnologica e le millenarie tradizioni dell’oriente produttivo.

Sia per Trenti che per Gioacchini talvolta l’intuizione dissigilla nuovi scenari operativi, talaltra introduce piccole intelligenti opzioni. Dal punto di vista della dinamica germinativa delle idee non si tratta però di fenomeni distinti: il gioco di assonanze dal quale muovono i primi passi le intuizioni scaturisce e s’avvia sempre a partire dalla giusta distanza rispetto al problema. Da un intervallo sospensivo che eviti sia la forza attrattiva del cliché, sia l’assillo di dover nevrilmente replicare alle questioni; offrendo cioè luogo e tempo all’attesa (meditativa e osservativa) necessaria per valutare le cause più profonde e, a prima vista, inaccessibili che governano il cambiamento.

VI. Punteggiare il silenzio

Volendo soffermarsi per un momento sullo status quo tipologico di settore, occorre rimarcare che entrambe le tipologie “radunate” in Lesena vantano un radicamento antropologico-culturale invidiabile. Da sempre presenti nell’iter plurisecolare dell’arredo, sia la piantana (dalla fiaccola da esterno alla Arco dei Castiglioni) sia la lampada da parete (dalla torciera da muro alla moderna applique) rappresentano due costanti evolutive nella storia del “fare luce” nella dimora e all’esterno.

Ma per meglio cogliere gli elementi di continuità tra Lesena e il più recente passato progettuale sul campo è forse utile citare alcuni passi di un breve saggio di Marta Espanet risalente al 1970. Secondo l’autrice, già all’epoca esiste «una vasta gamma di lampade [...] a muro [...] particolarmente studiate per» l’ingresso. «Il loro aspetto [...] tende in generale a un’assoluta semplicità che esalta la loro utilità. Sono quindi adattissime con qualunque tipo di arredamento e si accostano anche con facilità ai più complicati pezzi di antiquariato, poiché il loro significato diventa quello di semplici presenze funzionali». D’altro canto la lampada «può essere un oggetto particolarmente valido in sé che» si pone «quasi come una scultura». Si può inoltre osservare come «la lampada si» configuri «in generale come un elemento [...] unitario e la schermatura della luce» sia «attuata con parti della sua stessa struttura». Assai di frequente «la bellezza di un moderno apparecchio per l’illuminazione è in gran parte dovuta all’essenzialità» e, in particolare, proprio «le lampade a muro» sono «molto spesso assolutamente semplificate sia nella forma sia attraverso l’impiego di un unico materiale che le definisce»[11].

[11] Marta Espanet, Come arredare. Illuminare la casa, Görlich Editore, Milano 1970, corsivi nostri.

In quanto efficacissima per l’arredo delle parti comuni della casa (come ingresso e corridoi), profilata con assoluta semplicità, in grado di assicurare una presenza sì funzionale, ma altrettanto percepibile in quanto elemento scultoreo, in cui la stessa struttura è schermante; essendo elemento di essenziale bellezza, nonché lampada assolutamente semplificata e definita da un unico materiale, Lesena sembra proporre un complesso di requisiti (o aneliti) ereditati e già in essere (o germinanti) nel trentennio precedente. Tale concordanza di elementi appare a prima vista, curiosa perché tutto in Lesena sembra inusitato. Ma è proprio l’accumulo di riscontri rinserrati in un unico prodotto uno dei cardini della sua inafferrabile suadenza. In questo senso è l’estrema capacità di essere anche “altro” rispetto a quanto a prima a vista appare che si rileva, in ultima istanza, la cifra segreta di Lesena. La sua ubiqua indefinizione (formale, tipologica, materiale, d’ambito fruitivo finale) non fa che sottrarla proprio all’identificazione «in un ruolo preciso» che, ricordando le parole usate dal suo autore, oltre a essere la ragione del suo fascino sottile, al contempo contribuisce a sottrarle visibilità nel design system.

Come anticipato più sopra, insieme all’ideazione (o fondazione) di un nuovo ambito progettuale e – sulla scorta di un décalage espressivo degno di nota – alla fusione di due distinte tipologie dell’arredo illuminotecnico, la comparsa sul mercato di Lesena ha di fatto inferto alle consuetudini tecnico-plastiche del campo arredativo un’ulteriore effrazione: l’effetto sorpresa (a parere di chi scrive, uno dei punti di forza di Lesena meno rimarcati dalla stessa pubblicistica aziendale) che la magica adozione di diaframmi “sospesi” alle pareti comporta.

In questo caso è la corposa dimensione lineare e allungata del piano “sospeso” a determinare il tenore “inaudito” della proposta. In quanto in gran parte addossata al muro, la realtà plastica di Lesena è ridotta a 180° e l’unica porzione realmente tridimensionale è costituita dall’aggetto della porzione calandrata in sommità. Nella vista frontale e in parte di quella laterale (con un angolo visuale di almeno 30-40° per lato) essa pare navigare miracolosamente a mezz’aria. In buona parte occultata dal pannello frontale in alluminio (più largo dello scatolare in acciaio retrostante) la connessione muraria è di fatto “rimossa” dalla vista. Al contempo l’opportuna distanza dal muro ostenta distintamente la presenza di uno iato tra il pannello stesso e la parete muraria. Su tale quadro enigmatico che pare sovvertire della legge di gravità, lo sguardo si attarda pensoso come di fronte a un gioco di prestigio eseguito con maestria.

Si tratta ovviamente di una labile ambiguità, di un “segreto di Pulcinella” che si regge sull’effimero effetto del colore, sul sottile gioco di luci e ombre. Un mistero di levità che, in altri termini, è (o, più esattamente, sarebbe) funzione dell’esile portato di una punteggiatura spaziale attenta, meticolosamente efficace nel valorizzare la più minuta sfaccettatura del tema magico-volumetrico teatralmente rappresentato. Tutte curatele che, in entrambi i decenni di vita della lampada, hanno purtroppo brillato per la loro assenza.

Ciononostante, vuoi per le notevoli proporzioni in gioco, vuoi per la ieratica assenza di decoro nella plastica silhouette di questa pergamena argentina, avveniristica e indecifrabile, giunti al cospetto di Lesena l’ambivalente mix di meraviglia e sconcerto si rinnova a ogni incontro. Come anticipato, tale silente e prodigiosa “levitazione” non è favorita da alcun accorgimento volto ad assimilare cromaticamente parete ed elementi in acciaio. Un vero peccato, perché l’essenzialità minimale del pannello, abbinata a una cura maniacale del dettaglio, avrebbe probabilmente dischiuso a questo modello un successo assai più consistente e duraturo. E considerando il numero di prestigiosi riscontri ottenuti da Lesena fin dal suo primo apparire sul mercato, il responsabile più credibile del mancato ottenimento di una significativa e acclarata “rilevanza culturale” da parte della lampada (senza clamore uscita di produzione nel 2018) sembrerebbe proprio essere l’incongruo e contraddittorio “progetto di distribuzione e/o vendita” preordinato per il prodotto.

In un ventennio di vita produttiva, nel non certo esaltante percorso di Lesena – la cui natura “decorativa”, relativamente dissonante rispetto al 90% degli articoli “tecnici” presenti nel catalogo aziendale di quegli anni, costituisce una davvero blanda giustificazione per la scialba attenzione comunicativa riservata al prodotto –, non si rileva alcun accenno, neppure germinale, allo studio di una gamma. Il favore tributato alla lineare sobrietà della prima sortita, avrebbe giustificato perlomeno uno studio di fattibilità per una coordinata famiglia di lampade (da tavolo, da soffitto, da notte, ecc.) che cercasse di valorizzare ulteriormente in senso seriale le potenzialità connesse ai connotati di universale semplicità, economicità e fruibilità dell’ormai paradigmatico campione originario. E, come anticipato poc’anzi, nemmeno esistono tracce di un interesse aziendale volto a proporre varianti cromatiche della parte in alluminio né dello scatolare in acciaio che, – qualora proposto e reso disponibile anche nel solo colore bianco – avrebbe notevolmente incrementato l’allure magico-enigmatica offerta dall’effetto di miracolosa grazia sospensiva del pannello che riesce inopinatamente a stemperare l’algido esprit riformatore con antitetici tratti alchemici e persino ieratico-sacrali.

Una distrazione promozionale talmente evidente e “solare” che, se da un lato manifesta in modo plateale come la responsabilità della resa reale di un progetto sia di natura corresponsabilmente “corale”, d’altro canto conduce chi scrive a ritenere l’uscita di produzione di Lesena anche una potenziale ghiotta occasione per una “rinascita” futura del prodotto. Un nuovo avvento confortato e protetto dall’egida di un ben più lungimirante contraltare aziendale, corroborato da un progetto di distribuzione e/o vendita finalmente adeguato al valore del progetto. In grado, cioè, d’incidere positivamente su un percorso valoriale nel quale, se e solo se i quattro livelli di progettazione (in successione: progetto, produzione, vendita e consumo) «raggiungono insieme elevati livelli di armoniosa qualità», si può sperare di dar luogo a un «evento di rilevanza culturale. L’avvento di qualcosa che sin dal suo primo ingresso nella scena e sempre di più con la successiva misura del suo esito, contribuisce a ridefinire l’ambiente circostante e preesistente con la forza impositiva che ha ogni fenomeno veramente innovativo e significante»[12].

[12] Giovanni Cutolo, L’edonista virtuoso. Creatività mercantile e Progetto di consumo, Edizioni Lybra Immagine, Milano 1989

In conclusione, ci sia consentito di ribadire sommessamente come, sia nella più tradizionale sprezzatura sia nell’attuale minimalismo d’eloquio di molto progetto industriale locale, le risultanti generiche (morfologia prossima all’archetipo) e anonime (impatto prossimo allo sfondo) che sovente ne derivano non sono affatto prospettive da considerare unicamente in senso negativo. Nell’apollineo minus di profilazione, rilevabile sia in gran parte degli esempi regionali più sopra evocati che nel disegno di Lesena, si cela infatti un’assai meno evidente, ma altrettanto potente, magis zeusiano, perché, come afferma Roberto Calasso, anche «Zeus è piatto, e accoglie tutto»[13].

[13] Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, Milano 1988.

In un passo della sua opera monumentale, l’autore evidenzia un nesso perspicuo tra la pressoché inesistente profilazione dei luoghi di “incontro” col primo degli dèi e il suo potere smisurato. «Zeus non ha carattere, è il supporto di ogni carattere. Come la sua statua in Olimpia era il supporto di tutte le forme, sue parassite, così il suo luogo accoglie ogni possibile luogo. E la sua voce, lo stormire della quercia, è la più vicina all’indifferenziato, quella che sulla terra più ricorda il mare. Soltanto Zeus sa rendere meraviglioso il fondo piatto dell’esistenza. A tutti gli altri spettano le forme, i segni, i profili. A Zeus il fondo, e il rumore di fondo. Zeus è il qualsiasi, supporto dell’unico. L’unico non sussiste senza il suo supporto. Ma il supporto può sussistere da solo. L’unico tende a essere geloso, perché qualcosa non gli appartiene. Il supporto tende a essere indifferente, perché tutto su di lui riposa»[14].

[14] Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, Milano 1988.

Se, dunque, il luogo in cui abita Zeus non spicca né emerge perché egli è l’unico tra gli dèi che «può reggere il prodigio della normalità», così al cospetto di Lesena, nel profilo allegorico di quel futuribile papiro ancora vergine (il supporto non ancora vergato da alcuno) si può rilevare come persino al tratto che segna conquistando l’occhio, al solco che “fonda” scrivendo la storia, preesista, sebbene dai più inavvertito, un umile alter ego che, simile al basso continuo di un cuore pulsante nell’ombra, scandisce il ritmo dello sfondo su cui ogni cosa è e sarà scritta: una sorta di uniforme “tempo zero”, un rumore di fondo che qui offre luogo all’attesa ma anche alla criptica mercé di una levitazione miracolosa. Prodigio sottilmente avvalorato con le sacrali energie e potenze della luce indiretta proiettata verso il “cielo”. Emissione disposta e concertata forse in onore degli dèi, anzi del primo, tonante e fulmineo, degli dèi: il sommo Zeus, i cui diktat inappellabili hanno le medesime repentine modalità di quel lampo subitaneo che oggi, catturato, e a stento trattenuto nelle morse minute delle mechanè odierne – gli interruttori –, si può familiarmente replicare ad libitum onorando, consapevolmente o meno, quel «prodigio della normalità» di cui solo Zeus è l'accreditato nume tutelare.

Luigi Trenti (Firenze, 1965)




È una storia particolare questa, perfettamente in linea con la visione di MuDeTo che per vocazione ha sovente il piacere di informare i suoi lettori e follower su argomenti che fanno parte della zona nascosta dell’iceberg del design.
Da oltre due decenni siamo circondati di oggetti d’arredo che hanno una forma passabilmente comune, quella di un volume verticale stretto e allungato appeso a parete. È un linguaggio formale che ha contaminato varie tipologie d’arredo, senza che nessuno, né giornalisti, né storici, né critici, né cultori del design, sembra si sia accorto o abbia tentato di dare una spiegazione, né tantomeno indagando sulla sua origine e sulla sua evoluzione. Proveremo anche in questo caso a colmare un vuoto.

Flashback: indietro di venti anni

Abitare il Tempo, settembre 2003, ci siamo dati appuntamento con Flavia Ciatti per visitare insieme la mostra e andare a trovare Bruno Rainaldi che sta esponendo per Moco Extra Ordinary Furniture, una collezione di mobili e complementi che comprende la libreria verticale Ptolomeo, con cui poi vincerà nel 2004 il Compasso d’Oro ADI. Con lui socio e direttore artistico della Ciatti a Tavola (poi CCR) esporremo l’anno dopo a Entrata Libera la cucina modulare Metrocubo per la quale avevo immaginato un rubinetto a sollevamento telescopico verticale allora inesistente sul mercato, che purtroppo non riuscii a produrre nonostante il supporto di Gessi, e che diventò in seguito una tipologia presente in numerose cucine con lavabo a scomparsa.
Ma questa è un’altra storia che magari avremo modo di raccontare in seguito.
Passeggiando per gli stand, ci accorgemmo che alcuni espositori dell’arredobagno proponevano oggetti con questo aspetto familiare e mi sentii dire: «Architetto, ha visto quella doccia? Somiglia moltissimo alla sua lampada».

Luigi Trenti, Metrocubo - isola attrezzata, 2004, Ciatti a Tavola (con Whirlpool e rubinetteria Gessi) | © Ciatti a Tavola, courtesy Luigi Trenti [x]

Flashback: trent’anni fa

Altro flashback, questa volta indietro ulteriormente di un decennio, ossia a quando ricevetti una telefonata dalla Martini Spa con la quale ci eravamo conosciuti quando, ancora consulente della Casprini dove lavoravo al design e sviluppo di prodotti d’arredo, andai a propormi per cercare di capitalizzare l’esperienza svolta negli anni precedenti in Targetti come responsabile del design.
Il percorso Targetti-Martini era un classico per gli ex dipendenti Targetti in quanto la Martini, nata nel settore decorativo, era da qualche tempo determinata ad accrescere la propria presenza sul mercato della luce tecnica, più o meno da quando era appunto stato assunto l’ex direttore commerciale Targetti. Alla Martini cercavano prodotti che esprimessero uno stile tecnico-decorativo semplice, privo di grossi investimenti.
Mostrai alcuni concept fra i quali un rendering che illustrava quell’idea che sarebbe poi diventata Lesena, ma che in realtà era stata ideata tre anni prima, a fine 1994, quando Paolo Targetti mi incaricò di studiare una serie di soluzioni per rinnovare il catalogo Casa Collection.
Casa Collection era una sorta di piccola collezione di lampade d’arredo, popolato da articoli semplici e anonimi dai discreti volumi di vendita, realizzati con oculatezza, spesso recuperando componenti a magazzino o utilizzando materiali e tecnologie non dispendiose; una sorta di riuso/riciclo ante litteram.
Proposi di tutto, ma nessuna delle mie idee andò in porto, neppure questa strana lampada, che raccoglieva i due brief dettati distintamente per una lampada a parete e una da terra, ai quali avevo risposto creando un ibrido, un’applique da terra che era anche piantana a parete.
A onor del vero, a Paolo Targetti piaceva e propose di provare a produrla tutta in cristallo, ma l’allora direttore dell’ufficio tecnico non era della stessa idea: «queste cose non funzionano», disse più o meno, «adesso vanno forme più morbide».
Probabilmente aveva ragione per Casa Collection, che tutto poteva essere meno che un catalogo innovativo in termini di ricerca in design, ma il mondo sarebbe cambiato radicalmente di lì a poco.

Dalla meteora bolidista all’era minimalista

Le forme bioniche e bolidiste che avevano invaso il mercato e che io stesso avevo assimilato in Facoltà di Architettura frequentando il corso di Remo Buti e i suoi assistenti come Giovannoni e Venturini e avevo poi importato in azienda e applicato in prodotti come Arianne e TGE e che avrebbero poi caratterizzato il Mondial, corpo illuminante del F1, che vinse il Compasso d’Oro nel 1998, sarebbero di lì a poco tramontate, a favore di un dilagante minimalismo e rigore geometrico.
Frequentando la Targetti avevo avuto modo di conoscere anche altri stimolanti panorami ispiratori.
Per esempio quello delle fiere tedesche di Hannover dove si assegnava il premio iF, allora il più importante riconoscimento tedesco per il design, ma anche quello che offrivano le riviste di design internazionali come la tedesca “MD”, la newyorkese “ID” o la giapponese “AXIS”, cui Paolo Targetti era abbonato e che con la complicità della sua segretaria, andavo spesso a sfogliare.
Soprattutto oltralpe arrivavano messaggi chiari di un design diverso, più pulito e rigoroso, depurato di quelle forme pompose, di quelle superfici bombate e conicità fino allora apprezzate soprattutto nell’arredo.
Quello che percepivo era un ritorno a un design essenziale cui ero particolarmente affezionato e Lesena ne sarebbe stata la prima manifestazione creativa.

Alcune fonti d’ispirazione

Ripensando a come nacque l’idea, sicuramente hanno influito gli studi del corso di Storia dell’Architettura I tenuto della professoressa Giuseppina Carla Romby, durante il quale ebbi modo di conoscere a fondo il Rinascimento fiorentino e le opere più significative dei vari artisti e architetti che in quella felice epoca, di questa particolare decorazione, la lesena, fecero largo utilizzo.
Ma un’altra forte influenza scaturì dal decostruttivismo espresso da un gruppo di architetti americani di cui avevo letto un libro scritto e curato da Cristiano Toraldo di Francia: SITE architetture 1971-1988, gruppo di architetti che, guarda la coincidenza, aveva avuto rapporti strettissimi con Firenze e con i movimenti fiorentini degli anni 60-70 come i Superstudio. Nella mia mente, Lesena voleva essere anche un po’ una striscia di intonaco che si stacca dalla parete, un po’ come accadeva proprio nel Peeling Project dei SITE.
Un’immagine questa che mi appariva familiare e anche ironica, perché mi era passata varie volte davanti agli occhi, ma attraverso un canale del tutto diverso da quello accademico.
Mio padre, infatti, era un accanito lettore e collezionista de “La Settimana Enigmistica”, una pubblicazione che ha fatto parte della nostra realtà familiare per decenni e mentre lui si dilettava in difficili parole crociate a schema libero e rebus stereoscopici, io mi limitavo a cercare di completare un Bartezzaghi, un bersaglio, o un calcolo enigmatico, senza ovviamente dimenticare di leggere tutte le vignette, dove uno dei tanti temi ricorrenti era quello della coppia di coniugi ritratta in ambiente domestico mentre discutono nel vano tentativo di applicare carta da parati che si stacca giù.
Insomma questa visione dei SITE, che nasceva per attrarre pubblico nei grandi magazzini Best, a me ricordava simpaticamente le vignette che avevo incrociato per una vita, sembrava una curiosa coincidenza che dovevo in qualche modo provare a sintetizzare in un oggetto riconducibile anche ai miei studi architettonici.

Due concept

A questo punto, altro flashback in avanti, perchè in seguito pensai di estendere il tema della superficie che si sfoglia in altri due concept per il settore luce, entrambi proposti in questo caso ad Artemide.
La prima, del 2001, denominata Dune, vedeva la superficie di pavimenti e pareti sollevarsi e aprirsi in vario modo, creando dei tagli di luce. Erano come delle mattonelle pensate per inserirsi in pavimentazioni e pareti, perfettamente integrate a filo superfici. Huub Ubbens, allora responsabile della ricerca e sviluppo, apprezzò l’idea e propose di produrla attraverso la DZ Light, allora divisione esterni di Artemide. Realizzai allora dei modelli in MDF laccato delle due forme più interessanti e l’azienda sperimentò alcuni prototipi, oggi con i LED sarebbe stato possibile realizzarle e ottenere una certa efficienza luminosa, ma allora la tecnologia non era ancora pronta.

Luigi Trenti, Dune - lampada da incasso (concept), presentata ad Artemide nel 2001 | Una delle versioni degli apparecchi da incasso proposti a inizio millennio dal designer fiorentino all’azienda fondata da Ernesto Gismondi, la quale, in base al positivo parere di Huub Ubbens, ne fece realizzare alcuni prototipi destinati alla divisione esterni DZ Light, che però non entrarono mai in produzione | © & courtesy Luigi Trenti [x]

La seconda, del 2004, denominata Sfoglia, immaginava gli angoli in alto delle pareti aprirsi creando una superficie luminosa, generata da una sorgente fluorescente nascosta. In questo secondo episodio fu Marco Merendi a valutare l’idea, ma in entrambi i casi le due proposte non furono avviate alla produzione. Un vero peccato perché negli anni a seguire questi concept avrebbero trovato ascolto, come testimoniano i prodotti realizzati da varie aziende non solo come apparecchi di illuminazione, ma anche come sedute, imbottiti e lavabi luminosi.

Luigi Trenti, Sfoglia - applique (concept), presentata ad Artemide nel 2004 | Uno dei rendering realizzati dal designer toscano della sorgente luminosa, proposti nel 2004 alla prestigiosa azienda lombarda | | © & courtesy Luigi Trenti [x]

L’incontro con Martini

Dopo quella bocciatura in Targetti, Lesena rimase nel cassetto dei miei sogni per oltre due anni fino appunto a quel meeting con la Martini, dove trovò immediato consenso, anche perché era un oggetto originale e dal forte impatto, relativamente semplice da produrre in quanto non sarebbe stato necessario ricorrere a costose attrezzature e stampi.
Lesena fu quindi prodotta e presentata all’Euroluce del 1998, nello stand Martini, purtroppo sciaguratamente posizionata a un’altezza improbabile da terra, il che la rendeva un’idea bizzarra e poco appetibile al pubblico.
Il riscatto avvenne l’anno successivo, quando, esposta in modo corretto, a qualche centimetro dal pavimento, venne candidata nella sezione design al Premio Intel, nell’ambito di una manifestazione fieristica che era stata pensata per dar modo alle aziende produttrici del settore illuminotecnico ed elettrotecnico di esporre evitando di andare a infastidire quelle del settore decorativo che avevano in Euroluce il loro palcoscenico.
Quando poi fu trovato un accordo per non creare concorrenza con le fiere tedesche del settore, la fiera Intel si estinse, lasciando spazio alle biennali fiere Euroluce e Light & Building.
In quella prima edizione, in giuria, oltre a Augusto Morello presidente ICSID, c’era Achille Castiglioni e guarda il caso, proprio Ralph Wiegmann, direttore generale del premio iF di Hannover.
Lesena entrò nella rosa dei selezionati al premio, venendo esposta al centro della fiera di Milano, laddove c’era un’ampia tensostruttura, al fianco di prodotti di archistar e designer del calibro di Richard Sapper, Design Group Italia, Studio Foster & Partners, Sottsass Associati, Jean Michel Wilmotte Design.
Migliaia di visitatori, imprenditori, designer, giornalisti, addetti ai lavori, ebbero modo di vedere questi prodotti esposti e fu una grande soddisfazione sia per me che per l’azienda che in questa occasione colse un importante riconoscimento internazionale per il design, dando prova con quel prodotto, di essere in grado di esprimere concetti originali e all’avanguardia e reggere il confronto con aziende assai più blasonate.

I primi riscontri

L’anno successivo, nel 2000, in contemporanea al Salone del Mobile, Martini espose a Euroluce. Decisi di partecipare al Premio Young & Design, al quale avevo in passato già ottenuto menzioni d’onore.
Ricevetti l’invito per la premiazione, cui andai tranquillamente convinto di raccogliere un’altra menzione d’onore e invece uno alla volta i selezionati venivano chiamati e si alzavano a ritirare la targa, ma il mio nome non arrivava mai. Durò un bel po’ questa tensione, finché ormai in stato di delirio e del tutto incredulo, fui dichiarato vincitore su diverse centinaia di partecipanti.
Ancora oggi conservo un ricordo molto positivo di questo riconoscimento organizzato da RIMA Editrice, la cui giuria era presieduta dai migliori docenti di design di tutte le università italiane e che rappresentava veramente un esempio di talent scouting orientato alla valorizzazione dei giovani che risultavano già ben impegnati nel mondo del lavoro. Dal 1987 sono stati premiati designer del calibro di Massimo Iosa Ghini, Fabio Novembre, Jean Marie Massaud, Giuseppe Bavuso, Roberto e Ludovica Palomba, Marco Acerbis, Lorenzo Damiani, Daniele Lago, Davide e Gabriele Adriano e molti altri.
In autunno Lesena, in quanto vincitrice dello Young & Design venne esposta alla fiera di arredamento La mia casa a Milano. Fu inoltre selezionata da ADI per l’esposizione BIO 17 a Lubiana, all’epoca prestigiosa mostra della durata di un mese che metteva a confronto i prodotti di design dell’Europa Occidentale con quelli dell’Europa Orientale, ma inspiegabilmente l’ADI, che mi ammise con ben tre prodotti alla BIO, non selezionò Lesena per il neonato ADI Design Index, precludendo a questo prodotto l’opportunità di gareggiare per il Compasso d’Oro.

La comunicazione: luci e ombre

In seguito la Martini non si dimostrò molto interessata a promuovere questi risultati, né a distribuire il prodotto sui promettenti canali dell’illuminazione d’arredo dove sicuramente avrebbe avuto una buona accoglienza e un discreto riscontro nelle vendite.
Fu proposta sul mercato con lampada a ioduri metallici e solo dopo molte mie insistenze, accettarono di inserire, ma solo a richiesta del cliente, una versione alogena. Neppure sulla rivista “Area”, l’unica sulla quale appariva qualche pagina di pubblicità dell’azienda, Lesena fu mai promossa.
Alla Martini interessava sempre più il mercato dei prodotti tecnici e architetturali e la promozione e valorizzazione di un prodotto come Lesena non rappresentava certamente una priorità, motivo per cui preparai una cartella stampa, corredata di fotocolor e decisi di promuoverla autonomamente, scrivendo alle più importanti riviste di settore.
Non tutte furono disponibili, ma ottenni redazionali e articoli sul “Giornale dell’Arredamento”, “Brava Casa”, “Casaviva”, “Ottagono”, “Raum und Wohnen”, “Lighting” e “Italian Lighting”.
Su “l’Arca” n.151 a pagina 93, la più bella delle recensioni ottenute, intitolata Lesene di luce, recitava: «si tratta di un apparecchio in alluminio, sagomato in modo da evocare l’omonima struttura architettonica, con una forma miimale adatta ad ogni ambiente e un fascio di luce privo di imperfezioni. La sua duttilità funzionale è pari alla sua elasticità formale: la linearità della struttura, nella quale linee rette e curve si incontrano secondo modalità di asciutta geometria, trapassa l’intera storia del design e si colloca nel punto di intersezione di varie spinte progettuali, che essa interpreta con sobrietà e discrezione».

Lo stile Lesena

Umberto Rovelli, attualmente direttore del MuDeTo, scrisse un articolo che si intitolava Inventori o Formatori? di cui riporto un passaggio: «In prima battuta potremmo distinguere i designer di prodotto in due grandi categorie: “inventori” e “neo-formatori”. Definibili anche come progettisti “assoluti” e “relativi” queste due tipologie instaurano rapporti sostanzialmente differenti. Mentre i primi puntano a individuare un partner che gli consenta di portare alla luce qualcosa che per loro è già molto più d’un mero concept, i secondi sono più portati ad assecondare i desiderata imprenditoriali e ad avere sensibilità per le dinamiche del gusto. Laddove i primi – tendendo a promuoversi generosamente con più soggetti – non di rado rinvengono occulte “citazioni” nei lavori altrui, i secondi appaiono più spesso benevoli nei confronti della pratica imitativa perché vi intuiscono contiguità con il loro stesso modus operandi».

Ovviamente mi sono sempre complicato la vita cercando di appartenere al primo gruppo e proprio con Rovelli, che curava il mio sito web, così come descritto all’inizio del testo in fiera a Verona, iniziammo a osservare questo proliferare di prodotti che di Lesena, rimasta a catalogo Martini per un ventennio, riprendevano l’esempio, battezzandolo appunto “Lo Stile Lesena” o “Lesena Style”.
Di fatto quello di Lesena è stato come una sorta di suggerimento subliminale al mondo del progetto, è apparsa in fiere, è stato il primo prodotto con quelle caratteristiche ad essere premiato, è stata esposta in mostre e pubblicata in riviste, suscitando curiosità e ammirazione, il tutto in un tempo tutto sommato relativamente breve; poi è rimasta nascosta in un catalogo di prodotti tecnici e commercializzata in sordina per un ventennio sul canale dell’architetturale. Per questi motivi forse si spiega il progressivo e spontaneo allineamento al suo concetto formale di varie tipologie di oggetti dell’ambiente domestico. Nessuno aveva la percezione di plagiare realmente un prodotto, ma semplicemente avvertiva la necessità di allinearsi a una tendenza che «questa lampada che ho visto al Salone» proposta da «un’azienda di cui non ricordo bene il nome» aveva espresso per un po’ di tempo al pubblico.
In effetti non si sono mai registrate copie servili del prodotto, ma tante sono state le reinterpretazioni e variazioni sul tema, ormai trend conclamato, anche quando forse rappresentava quasi una forzatura.

La ricerca (vana) di prequel

Recentemente, in vista di questa acquisizione al MuDeTo, ho voluto approfondire il fenomeno, svolgendo una ricerca per capire se qualcosa di simile fosse stato prodotto antecedentemente alla sua uscita sul mercato e rilevare poi esattamente la cronologia di apparizione dei primi prodotti che di Lesena avevano assimilato l’esempio formale reinterpretandolo.
Considerando la data di ideazione (fine 1994), la sua prima produzione (1998), la ricerca che ho svolto si è concentrata negli anni compresi fra il 1995 e il 2003, consultando, presso le Biblioteche del Politecnico di Milano, della Facoltà di Architettura di Firenze e del Comune di Lissone, le annate delle riviste “Interni”, “Ottagono”, “MD” e “Il Bagno Oggi e Domani”. Sono stati inoltre consultati gli ADI Index, i cataloghi del Premio iF e il Repertorio del Design Italiano 1950-2000 per l’arredamento domestico di Giuliana Gramigna e numerosi altri libri e pubblicazioni. Mi scuso fin d’ora per eventuali e involontarie omissioni, ma dato l’esteso periodo di studio e la gran quantità di prodotti coinvolti, sarebbe impossibile elencare dettagliatamente tutto, in quanto si tratta realmente di una produzione molto vasta, distribuita su varie tipologie di oggetti e decine di produttori distinti. Mi limiterò quindi a citare solo alcuni esempi significativi per spiegare l’evoluzione del fenomeno, per il resto, almeno in parte, ho iniziato a raccogliere questi esempi di reinterpretazione in un profilo Instagram che si chiama lostilelesena, che invito a visionare.

E quella dei sequel (molti)

Antecedenti a Lesena, nel settore luce e con le stesse caratteristiche non ho trovato altri esempi, ma per dovere di cronaca vorrei citare, nel 1997, la prima lampada di Slamp composta da due lunghi diffusori bombati in plastica termoformata, che nasce come lampada da terra decorata da vari artisti e di cui fu proposta anche l’applicazione a parete come Wall System. Si tratta più di una sorta di “plafoniera”, ma è comunque un interessante estensione di collezione. Interessante anche la lampada Wing di Gamma 3 Luce, una lampada realizzata con una striscia verticale di vetro ondulato pubblicizzata nell’autunno del 1998. Alcune produzioni successive recuperano più puntualmente l’aspetto estetico del pannello rettangolare verticale parallelo a parete eliminando però la parte superiore, il “capitello” della Lesena, rinunciando così a una più potente emissione luminosa indiretta verso il soffitto. È il caso di prodotti come il Banner di Davide Groppi, del 2004, ma anche del Riga di Flos del 2008, aventi entrambi un’emissione luminosa solo laterale. Da citare, del 2005, il sistema modulare Sherazade di Targetti nella sua versione con partenza verticale a parete, realizzato con lastre di PMMA bianco o nero lucido.

Uno sguardo al settore bagno

Al di là del settore luce è invece interessante notare come il design di certe tipologie di arredo si sia evoluto in questa direzione, soprattutto per quanto riguarda l’arredobagno.

Per quanto riguarda il lavabo, si passa infatti dalla configurazione anni 80 in cui è incassato o semi-incassato in un ingombrante mobile parallelepipedo, dal quale si eleva uno specchio della stessa larghezza illuminato in sommità da faretti integrati in una mensola, a uno schema completamente destrutturato – esemplare in tal senso sarà il bagno di Starck per Duravit, del 1994 – dove il lavabo diventa elemento protagonista dalla geometria decisa e che talvolta svolge funzione contenitore, emergendo freestanding dal pavimento ben distante dalla parete, sovrastato da uno specchio corto e largo prevalentemente tondeggiante, talvolta affiancato da totem attrezzati.
Poi d’un tratto, ma siamo già nel 2000, Makio Hasuike sviluppa Narciso per Covo, un concept di lavabo in puro stile Lesena, pensato totalmente in acciaio inox, che sfrutta le caratteristiche del materiale per realizzare un elemento d’arredo completo in cui la lastra d’acciaio viene lavorata per creare da un unico pezzo il bacino, il piano di appoggio e lo specchio, senza soluzione di continuità.
È molto probabilmente il primo esempio di una lunga serie di lavabi concepiti come un unico elemento di arredo integrato, a sviluppo verticale, dove anche lo specchio è parte dell’insieme, come il Tonic Guest di Ideal Standard, Premio iF nel 2005 sezione Residential, La Fontana e Wave di Arteceram del 2008 o Tatami di Mastella Design del 2009.

Anche lo specchio, per il bagno o per l’ingresso, cambia forma, perde ogni sua eventuale cornice e da rotondeggiante corto e largo diventa quadrangolare lungo e stretto, discostandosi qualche centimetro da parete, come nel Simple 180 di Ceramica Flaminia del 2002.
Ovviamente specchi lunghi e stretti ne sono stati sicuramente prodotti anche precedentemente, nel corso della mia ricerca ne ho trovato per esempio uno colorato e luminoso, risalente al 1996 e firmato da Nanda Vigo per Glas, ma in quel caso era parte e completamento di una mini collezione di più forme geometriche, non un oggetto a sé stante, mentre è fortemente significativo l’allineamento al Lesena Style quando Fiam produce lo specchio Ri-flesso nel 2004.

Le colonne doccia mantengono la loro identità di bianco oggetto in plastica termorformato, superaccessoriate di nicchie dove riporre spugne, shampoo e bagnoschiuma fino ai primi anni del 2000, quando cominciano ad apparire semplificazioni più o meno estreme che trasformano l’oggetto in uno scatolare parallelepipedo sospeso a parete il cui getto di acqua in alto si sporge in avanti talvolta attraverso un tubo come nel Water Wall di Starck per Axor, talvolta restando integrato in un profilo raggiato come nello Steelwork di Armando Vicario, entrambi del 2004; successivamente piegherà a 90° creando una “L” che arriverà in alcuni casi ad agganciare la protezione di cristallo frontale della doccia stessa. A titolo di esempio, in puro stile Lesena, si potrebbero citare la collezione Interior Design Gallery di Cisal, il Renaissance di Fornara & Maulini e la Proxima di Axolo, tutte del 2004, il P12 Shower Panels di Teuco e Under di iB Rubinetterie del 2005 e, in tempi molto più recenti, il Vela di Antoniolupi del 2016. La configurazione a “L” si è talmente diffusa e radicata come standard sul mercato al punto che è attualmente facilissimo trovare questo tipo di colonna doccia anche in produzioni anonime a basso prezzo online e in numerosi magazzini della grande distribuzione.

Il caso “termosifone”

Invece l’oggetto che più di tutti potrebbe smentire questo ragionamento cronologico è il “termosifone” che negli anni passa dal volume basso a quello alto divenendo “scaldasalviette” quando assume una conformazione più verticale, con tubi disposti orizzontalmente per posizionare appunto, le salviette; questa evoluzione verticale è infatti già presente nel corso degli anni 90.
Mantiene però questo aspetto “tubolare” indisturbato praticamente per sempre (ancora oggi li producono così) trasformandosi solo verso i primi anni del 2000 in versioni che seguono il Lesena Style, applicando al posto dei tubi dei pannelli, talvolta piani, talvolta ondulati, talvolta irregolari. Nasce così il “termoarredo” che ha un’efficienza decisamente inferiore, per via della ridotta superficie radiante, ma un’estetica allineata alle tendenze del momento che vogliono un oggetto non solo destinato a scaldare, ma anche ad arredare con un’estetica minimale gli ambienti. Sfogliando una rivista come “Il Bagno Oggi e Domani” appare evidente questa evoluzione estetica, che vede trasformare i tubi verticali in elementi piani affiancati, oppure si notano ibridazioni, con strutture tubolari parzialmente alternate a superfici piane talvolta adibite a specchio, tipo il Reflex di Tubes del 1999, fino a giungere probabilmente al primo esempio totalmente piatto che è l’Arteplano di Zehnder, nel 2003. Da lì in poi tutte le aziende produttrici del settore si scatenano lavorando attorno a questo pannello radiante, che di volta in volta viene interpretato in modi diversi, con lavorazioni artistiche superficiali, con l’apertura di fori di varia foggia o con superficie ondulata come il Tenda di Runtal del 2004, o con lamelle sporgenti inclinate come il Flaps di Antrax del 2012, posizionandolo verticale o orizzontale, e così via. La tipologia del “termoarredo” così concepito, dischiude una nuova frontiera commerciale, trasformando un oggetto da sempre solo funzionale, in un complemento d’arredo prevalentemente decorativo che conferisce un tocco di contemporaneità ed eleganza essenziale agli ambienti in cui è collocato. Non sarà più il solito “termosifone” da nascondere sotto i davanzali delle finestre o dietro le porte perché rovina l’estetica della parete, ma un oggetto da esporre con vanto, anche replicandolo, fatto questo tra l’altro necessario, in quanto meno efficiente.

Prodotti pionieri, contributi ed esperienze in altri settori

Anche altre tipologie di arredo subiscono gradualmente l’influenza del Lesena Style, reinterpretandolo con curiose soluzioni verticali a parete in librerie, comodini, caminetti, portabottiglie e così via.
In tema di pannelli a parete è doveroso citare un precedente storico molto illustre: gli RZ61 di Dieter Rams per Vitsoe risalenti al 1961, che ricordano in metallo i pannelli di faesite forati che venivano posizionati come schienali sopra i piani di lavoro in officina, per agganciare gli attrezzi e averli a portata di mano. Gli RZ61 si possono ancora vedere online in colore bianco fotografati con ganci appendiabiti, in moduli a sviluppo orizzontale, affiancati a formare un rivestimento continuo e ben aderenti al muro. Non è proprio uno "Stile Lesena", ma il produttore S+ Systemmöbel nel 2003 li riediterà proponendo versioni verticali affiancate color grigio scuro e si aggiudicheranno un premio iF nel 2005 nella sezione Residential.
Interessanti su questo tema ma concepiti come scaffalatura e libreria a pannelli affiancati sia il sistema modulare Liberi di Sintesi del 1998, sia il Lisca di Heron Parigi del 2010.

Io stesso contribuii ad accrescere questo filone sviluppando nel 2004 per Ciatti Segnali di Casa il Wall, un supporto a parete per i primi TV a schermo piatto che era pensato per nascondere i cavi di connessione video e home theatre evitando interventi murari. Ebbe un discreto successo commerciale anche negli USA dove venne distribuito da DWR con il nome Muro. Particolarmente interessante era la sua versione in finitura grezza, che l’acquirente poteva verniciare con il colore della parete o rivestire con la stessa carta a parati, mimetizzandolo efficacemente.

Luigi Trenti, Wall (Muro) - supporto video a parete, Ciatti Segnali di Casa, 2004 | Struttura realizzata in finitura grezza e dipinta come la parete | © Ciatti Segnali di Casa, courtesy Luigi Trenti [x]

Completai poi la mia personale trilogia dello “Stile Lesena” nel 2010 con un best seller: la libreria Fifty Fifty progettata per Cattelan Italia traendo ispirazione dai rivestimenti delle camere anecoiche. Il nome è riferito al fatto che metà ripiani sono posti in orizzontale e metà in verticale, inoltre ciascun modulo viene affiancato ruotandolo alternativamente di 180° per formare un pattern che può essere replicato all’infinito, sia orizzontalmente che verticalmente.

Luigi Trenti, Fifty Fifty - libreria, Cattelan Italia, 2010 | Pannello libreria a scaffali, metà verticali e metà orizzontali, ispirato ai rivestimenti anecoici, montato alternato ruotandolo di 180° per creare un pattern infinito a parete | © Cattelan Italia, courtesy Luigi Trenti [x]

A distanza di 25 anni dalla prima uscita sul mercato e dopo svariate decine di prodotti che in vari settori dell’arredo ne ricalcano il concetto formale, capita ancora oggi di vedere espressioni del “Lesena Style” che raccolgono consensi e riconoscimenti per il design e paradossalmente anche sentire colleghi lamentarsi di essere stati copiati per quella doccia o per quel termo-arredo che hanno recentemente disegnato…
Mi guardo bene dal farlo, ma sarebbe divertente far scattare uno “spiegone” alla maniera di Miranda Priestly (Meryl Streep) per il golfino ceruleo ne Il Diavolo veste Prada (The Devil Wears Prada, 2006) riassumendo quanto sopra esposto, che è una storia come altre del MuDeTo, sconosciute a molti addetti ai lavori che quando l’avranno letta “cadranno dalle nuvole” esattamente come l’Andrea Sachs (Anne Hathaway) nel film di David Frankel.

Titolo / Title:

Lo Stile Lesena. Breve storia di un fenomeno inspiegabilmente ignorato

Autore / Author:

Luigi Trenti

Luogo / Place:

Firenze

Data / Date:

2023

001	Luigi Trenti, Lesena - lampada da parete, 1994-‘98, Martini | © Pietro Savorelli, courtesy Martini / Luigi Trenti
002	Definizioni, prospetti e sezioni a confronto: la “Lesena” come classico elemento decorativo architettonico (a sx); la lampada Lesena come inedita tipologia illuminotecnica (a dx) | Da notare come le “assonanze” e gli echi rilevabili tra i due elementi (ad es. la tripartizione in base, fusto e capitello) siano al medesimo tempo richiamate nelle proporzioni e contraddette nella resa: la base è avvertibile in quanto “assenza”, mentre la calandratura del pannello mantiene comunque una continuità planare tra gli allusi “fusto” e “capitello” | © Luigi Trenti (dx), courtesy Martini / Luigi Trenti (dx)
003	Luigi Trenti, Lesena - rendering di progetto a confronto, 1994 (1) e 1998 (2) | Generato dall'autore il 1 dicembre 1994, il concept della lampada, nell'idea iniziale proposta all'epoca per il catalogo Casa Collection di Targetti (a dx), prevedeva un effetto luminoso a terra e un regolatore di intensità luminosa (dimmer) posizionato frontalmente al centro in basso | © & courtesy Luigi Trenti
004	Michelangelo Buonarroti (Caprese - Arezzo, 1475 – Roma, 1564), vista dell'interno delle Cappelle Medicee nella Sagrestia Nuova della Basilica di S. Lorenzo a Firenze (a sx) | Progettata e realizzata dall'autore tra 1519 e il 1534 ca. Qui presenti, in grande evidenza, per il netto contrasto cromatico con pareti e gruppi scultorei, le lesene michelangiolesche realizzate in pietra serena | «Ripensando a come nacque l’idea, sicuramente hanno influito gli studi del corso di Storia dell’Architettura I tenuto della professoressa Giuseppina Carla Romby, durante il quale ebbi modo di conoscere a fondo il Rinascimento fiorentino e le opere più significative dei vari artisti e architetti che in quella felice epoca, di questa particolare decorazione, la lesena, fecero largo utilizzo» (Luigi Trenti, Lo Stile Lesena. Breve storia di un fenomeno inspiegabilmente ignorato, 2023)
005	Confronto tra le dimensioni (prospetto e sezione) della lampada a parete Lesena (a sx) e i volumi architettonici del Peeling Project realizzato dal gruppo SITE Projects Inc. a 5400 Midlothian Turnpike, Richmond, Virginia, nel 1972 per Best Products Co (a dx) | «Un’altra forte influenza scaturì dal decostruttivismo espresso da un gruppo di architetti americani di cui avevo letto un libro scritto e curato da Cristiano Toraldo di Francia: SITE architetture 1971-1988, gruppo di architetti che, guarda la coincidenza, aveva avuto rapporti strettissimi con Firenze e con i movimenti fiorentini degli anni 60-70 come i Superstudio. Nella mia mente, Lesena voleva essere anche un po’ una striscia di intonaco che si stacca dalla parete, un po’ come accadeva proprio nel Peeling Project dei SITE» (Luigi Trenti, Lo Stile Lesena. Breve storia di un fenomeno inspiegabilmente ignorato, 2023) | © Luigi Trenti (dx), courtesy Martini / Luigi Trenti (sx) / © & courtesy SITE Projects Inc. (dx)
006	Confronto (semiserio) tra le dimensioni (prospetto e sezione) della lampada a parete Lesena (a sx) e la dilettantesca posa in opera della carta da parati proposta su una vignetta tratta da “La Settimana Enigmistica” n.2645 del 4 dicembre 1982 | © Luigi Trenti (dx), courtesy Martini / Luigi Trenti (sx) / © & courtesy La Settimana Enigmistica (dx)
007	Luigi Trenti, Lesena - lampada da parete, 1994-‘98, Martini | Fasi di montaggio del prodotto: [A] Fissaggio a parete della struttura in acciaio e posizionamento della sorgente luminosa e vetro di protezione sulla sommità della struttura (sx); [B] Innesto del pannello in alluminio tramite semplice appoggio di gancio retrostante su listello basso orizzontale premontato nella struttura di acciaio (dx) | © Martini, courtesy Luigi Trenti
008	Luigi Trenti, Lesena - lampada da parete, 1994-‘98, Martini | Fasi di montaggio del prodotto: [C] Innesto del pannello in alluminio con coppiglia su listello alto orizzontale premontato nella struttura di acciaio (sx); [D] Ancoraggio di sicurezza del pannello in alluminio con la struttura in acciaio tramite vite (dx) | © Martini, courtesy Luigi Trenti
009	Luigi Trenti, Lesena - lampada da parete, 1994-‘98, Martini | Due immagini di dettaglio in cui si rimarca una singolare doppia identità plastica: unitaria se vista frontalmente; chiaramente bipartita in due distinte “anime” metalliche di alluminio e acciao qualora vista lateralmente (a sx) / Vista integrale del pannello di tre quarti in cui – anche per la maggiore larghezza del pannello frontale rispetto allo scatolare in acciaio retrostante – la lampada si propone come miracolosamente “sospesa” nell'aria (a dx), | © & courtesy Luigi Trenti (sx) / © Pietro Savorelli, courtesy Martini / Luigi Trenti (dx)
010	Luigi Trenti, Lesena - lampada da parete, 1994-‘98, Martini | Due proposte d'arredo in ambito residenziale nelle sole colorazioni della lamiera di alluminio a vista rese disponibili dall'azienda emiliana: bianco (sx) e grigio satinato (dx) | © Fotostudio Immagini per Catalogo Martini 2006, courtesy Luigi Trenti (dx)
011	Luigi Trenti, Lesena - lampada da parete, 1994-‘98, Martini | Rendering che illustra in particolare uno tra i molteplici ambiti di applicazione arredativa del modello | © Loris D'Ascenzio, courtesy Luigi Trenti
012	Luigi Trenti, Lesena - lampada da parete, 1994-‘98, Martini | Un esempio delle notevoli potenzialità arredative del modello – e dell'innovativo pannello a parete da terra, tipologia di cui Lesena è a pieno diritto progenitrice – sia in ambito domestico sia all'interno di ambienti di lavoro (studi, uffici, negozi, attività commerciali in genere), istituzionali e a vocazione più o meno culturale (musei, teatri, gallerie, ecc.) | © Fotostudio Immagini per Catalogo Martini 2010, courtesy Luigi Trenti
013	Luigi Trenti, Lesena - lampada da parete, 1994-‘98, Martini | Altri due esempi delle notevoli potenzialità arredative del modello utilizzato sia in versione singola che a coppia (entrambe con colorazione bianca della lamiera di alluminio a vista) risultando credibile ed efficace praticamente in qualunque contesto | © Fotostudio Immagini per Catalogo Martini 2010, courtesy Luigi Trenti
014	Luigi Trenti, Lesena - lampada da parete, 1994-‘98, Martini | Rendering che illustra in particolare uno tra i molteplici ambiti di applicazione arredativa del modello | © Loris D'Ascenzio, courtesy Luigi Trenti
015	Luigi Trenti, Lesena - lampada da parete, 1994-‘98, Martini | Rendering che illustra in particolare uno tra i molteplici ambiti di applicazione arredativa del modello | © Loris D'Ascenzio, courtesy Luigi Trenti
016	Un momento della premiazione della XIII edizione del premio Young & Design. Luigi Trenti, primo classificato col prodotto Lesena di Martini, riceve il premio da Francesco Trabucco, Milano 2000 | © Liso Luigi, courtesy Luigi Trenti
017	Luigi Trenti, Lesena - lampada da parete, 1994-‘98, Martini | Rendering che illustra in particolare uno tra i molteplici ambiti di applicazione arredativa del modello | © Loris D'Ascenzio, courtesy Luigi Trenti
018	Il designer Luigi Trenti nel proprio studio nel capoluogo toscano accanto a Lesena, la lampada da parete ideata nel 1994 e prodotta nel 1998 (fino al 2018) dal'emiliana Martini, Firenze 2023 | © & courtesy Luigi Trenti

1994-‘98 Lesena 

Inedita soluzione illuminotecnica a luce indiretta (classificabile sia come piantana da terra che come applique da terra), questo ibrido tipologico è connotato da un profilo plastico a un tempo netto, ben definito e minimale. Una bivalente pulizia rinvenibile anche nella matericità del corpo scatolare (largo 400 mm, alto 1842 mm, profondo 70 mm) elettrificabile a piacere, con eventuali dimmer e luce d’emergenza in caso di blackout, la cui parte frontale a vista (perlopiù parallela alla parte muraria e solo sulla sommità curvata in avanti tramite calandratura) è realizzata in lamiera di alluminio (grigio satinato o bianco) mentre quella posteriore è in lamiera di acciaio, onde facilitarne il fissaggio a parete. Occultate fra le lamiere e pressoché invisibili dall’esterno trovano sede le sorgenti luminose (indifferentemente alogene, fluorescenti, agli ioduri metallici, ecc.). Per il settore illuminotecnico questo innovativo pannello a parete da terra – tipologia di cui Lesena è a pieno diritto progenitrice – dovrebbe essere catalogato, a rigore, come apparecchio non specificamente “tecnico” bensì “decorativo”, ma visto il livello di rarefazione formale appare del tutto improprio risolverne in un senso o nell’altro l’enigmatico tenore borderline. È dunque a cavallo di più vie che sembra legittimo collocare Lesena anche oggi. Né piantana né applique, né lampada domesticamente “calda” né apparecchio gelivamente tecnico in senso stretto – sebbene di aspetto molto semplificato ed essenziale – a dominante funzionale espressamente creata per illuminare ambienti di lavoro (studi, uffici, negozi, attività commerciali), istituzionali e a vocazione più o meno culturale (musei, teatri, gallerie, ecc.).




Corpo (parte frontale a vista): In lamiera di alluminio


Corpo (parte posteriore): In lamiera di acciaio per un facile fissaggio a parete


Sorgente I: Lampada ad alogenuri metallici 150W con attacco Rx7s-24


Sorgente II: Lampada alogena 230W con attacco R7s


Emissioni: Distribuzione luminosa indiretta


Alimentazione I: Elettromagnetica integrata con sorgenti ad alogenuri metallici


Alimentazione II: Lampada di supporto da 100W alogena con attacco B15d (variante disponibile)


Alimentazione III: Alimentatore elettronico o diverse potenze di lampada (varianti su richiesta)


Colori: Grigio satinato / Bianco (lamiera di alluminio a vista)


Dimensioni: h: 1842 mm | l: 400 mm | p: 70 mm (min) / 352 (max top)


Classe di protezione: IP20

1965	name:	Luigi Trenti

1971	name:	Martini

2000	I premio | Concorso Young&Design, Rima Editrice - Milano
2000	Prodotto in mostra alla 17.bio 2000 - Bienale Industrijskega Oblikovanja (5 ottobre - 5 novembre) Ljubljana [SI]
2000	Prodotto in mostra a La mia casa, Fiera di Milano (18 ottobre - 5 novembre) - Milano
1999-’00	Mostra premio Intel Design '99, Fiera di Milano - Milano Expo 2000 (1 giugno - 31 ottobre) - Hannover [D]
1999	Prodotto finalista al premio Intel Design '99, Fiera di Milano - Milano

	Intervista a Luigi Trenti, Giorgio Tartaro | Design Book - Leonardo Case & Stili - 01/04/2011
2023	© video: Luigi Trenti

2007	AA.VV., Young & Design I vent’anni 1987-2000, Rima Editrice - Milano
2001	D. M., Design con interfaccia, “Ottagono”, n° 142, febbraio-marzo
2000	Saranno famosi, “BravaCasa”, XXVII, n° 12, dicembre
2000	“Casa Viva”, novembre
2000	Peter Krečič (et al.), BIO.17 Bienale Industrijskega Oblikovanja, Camera di Commercio Slovena | Matija Murko Ed. - Ljubljana (5 ottobre - 5 novembre)
2000	“Raum und Wohnen”, n° 10, ottobre
2000	Lesene di luce, “l’Arca”, n° 151, settembre
2000	“GdA - Il Giornale dell’Arredamento”, n° 9, settembre
2000	Finalmente un lampada!, “Lighting”, n° 61, agosto-settembre
2000	Figures, “Italian Lighting”, n° 107, luglio-agosto
2000	Young & Design 2000, “GdA - Il Giornale dell’Arredamento”, n° 6, giugno
1999	AA.VV., Premio Intel Design '99. Innovation technology design - catalogo, Arti Grafiche Varesine, Casciago - Varese

Luigi Trenti
Via delle Porte Nuove, 43
50144 Firenze
luigi@trenti.design
www.trenti.design

Martini
Via Provinciale, 24
41033 Concordia sulla Secchia - Modena
phone +39 0535 48111