Home MuDeToSeguici su Facebook / Follow Us on FacebookSeguici su Istagram / Follow Us on Istagram
space
© photo: none
space




RIMINI BLU [1959]












SCHEDA PRODOTTO (on/off)




space








COLLEZIONE MUDETO



«–previous | next–»
Products Nav Bar
LETIZIA 
AREA TEMATICA Design per l'Abitare
TIPOLOGIA caffettiera espresso e napoletana
ANNO 1966
PROGETTO Fernando Farulli, Giancarlo Casini
PRODUZIONE / PER Manifattura Luciano Mancioli
RICONOSCIMENTI [...]

MOTIVAZIONE 


di: Marina Vignozzi Paszkowski 

La porcellana Mancioli e la caffettiera Letizia

Il rituale della preparazione del caffè è un momento di connessione sensoriale e culturale, fatto di gesti ripetuti e simbolici – dalla macinatura dei chicchi all’ascolto del vapore – che rende l’attesa parte integrante del piacere della bevanda [01].

La diffusione di questo profumato infuso scorre per i secoli: dal primo leggendario scopritore dei “chicchi di caffè”, il pastore etiopico Kaldi, che nel IX secolo notò l’effetto energizzante delle rosse bacche sulle sue capre, ai monaci sufi dello Yemen, che, all’inizio del XV secolo, utilizzavano il caffè per mantenersi svegli durante le veglie di preghiera notturne. Verso la metà del XVI secolo la bevanda giunse da Costantinopoli, l’attuale Istanbul, alle sponde del vecchio continente. Dove si divulgarono i metodi di preparazione conosciuti come il caffè all’araba o alla turca, che si distinguono non tanto per la tecnica quanto per la tostatura e l’aroma. In entrambi i casi si utilizza una piccola casseruola o bricco in rame o ottone dal collo stretto e dal manico lungo, chiamato ibrik in arabo e cezve in turco.

A partire dal XIX secolo, si susseguirono numerosi modelli di macchine da caffè e caffettiere, tutti concepiti per unire acqua e polvere di caffè: evolvendosi dal percolatore alle prime macchine espresso sino al sistema a capsule Nespresso (1976). Tra questi, alcuni ebbero particolare successo: la caffettiera napoletana, derivata da un’invenzione dl 1819 del parigino Jean-Louis Morize, basata sull’inversione del bricco per far fluire l’acqua attraverso il caffè macinato, e la caffettiera Moka di Alfonso Bialetti (primo prototipo 1933) [02], con la sua iconica forma ottagonale in alluminio, simbolo del design italiano. Fu una rivoluzione domestica semplice e funzionale, presto esportata e imitata in tutto il mondo.

Nonostante questi straordinari traguardi, la creatività continuò a proporre soluzioni estetiche e funzionali diverse, come la caffettiera Letizia, nelle versioni napoletana ed espresso, prodotta negli anni Sessanta dalla manifattura Mancioli [03].

I Mancioli e la porcellana

Prima di addentrarci nella storia della caffettiera Letizia, è imprescindibile tracciare il profilo della famiglia Mancioli di Montelupo Fiorentino. Fin dai primi decenni del Novecento, i Mancioli dimostrano forte spirito imprenditoriale: da calzolai e venditori di vasellame e stoviglie in terracotta, avviarono nel 1938 una manifattura in via Caverni che univa il vetro verde dell’empolese e impagliato [04], estendendo nel 1946 la produzione alla ceramica artistica [05].

All’inizio degli anni Cinquanta, grazie all’apporto di Luciano (figlio del fondatore Natale), l’azienda intraprese la via del design, coniugando sapientemente artigianalità e produzione seriale. Questo approccio generò una rete di contatti internazionali, favorita dai frequenti viaggi di ricerca e promozione di Luciano Mancioli e dal vivace ambiente fiorentino del dopoguerra, animato da figure di mediazione culturale come Giovanni Battista Giorgini, i buyer e i grandi distributori internazionali che trascorrevano lunghi periodi nel capoluogo toscano.

A metà degli anni Cinquanta, i titolari della manifattura “Natale Mancioli & C.”, accanto alla tradizionale produzione in terraglia, avviarono ricerche su un nuovo impasto ceramico, denominato B.2 (Body), un materiale “fuoco-forno-tavola” con corpo bianco “sasso” greificato, con porosità massima dello 0,5 %, pensato per essere decorato sotto vernice come una terraglia.

Dopo un viaggio in Svezia nel 1955 [06], Luciano Mancioli concepì l’idea di sviluppare una linea resistente al calore, capace di superare la freddezza e la fragilità delle porcellane nordiche, allora assenti sul mercato italiano [07]. Senza esitazioni, avviò una campagna informativa che lo portò a collaborare con il dottore Hind Stanley di Stoke-on-Trent [08], esperto di terre ceramiche. Il primo incontro avvenne a Londra nel luglio 1955 [09]; già l’anno seguente il dottor Hind fornì la miscela ideale per il Body. Nel frattempo, a Montelupo fu installato un forno elettrico [10], per una produzione limitata, che servì a formare le maestranze alla lavorazione di questo nuovo impasto ceramico.

Ogni tre mesi, il dottor Stanley soggiornava a “La Marta”, la colonica dei Mancioli, dedicandosi in fabbrica a formulazioni, progetti e addestramento degli artigiani. I suoi quaderni di appunti – donati alla morte dalla vedova a Luciano Mancioli – testimoniano l’attenzione maniacale riservata a ogni dettaglio.

Superate le difficoltà iniziali nel colaggio dell’impasto, si giunse alla definizione dei modelli in gesso, molti progettati dallo stesso Stanley con l’aiuto di Sergio Del Buono [11]. Fu, inoltre, costruito un nuovo forno dall’ingegnere Adriano Bossetti [12]: dopo la demolizione di una parete dello stabilimento, i primi pezzi furono cotti con successo. Inseguito si adottarono forni a tunnel con controllo automatico di calore e pressione, garantendo cicli di cottura graduali secondo un diagramma prestabilito.

Tra ricerca e fatica, la piccola manifattura di Montelupo scoprì la propria “pietra filosofale”. Come l’alchimista Friedrich Böttger introdusse a inizio del Settecento la porcellane a pasta dura utilizzata nella manifattura reale di Meissen, i Mancioli crearono un impasto capace di suscitare enorme interesse. L’impasto, miscelato con terre, caolino, sabbie e feldspati selezionati a livello internazionale, veniva impiegato sia nella produzione dei piatti che delle casseruole, con lavorazione a colaggio o a modine. Dopo la prima cottura a 1220 °C (ritiro di circa il 13 % rispetto al modello), i pezzi venivano decorati a mano sotto vernice come la terraglia, poi ricoperti da uno smalto trasparente estremamente resistente. La seconda cottura, a 1080 °C, vetrificava lo smalto, conferendo lucentezza e durabilità alla decorazione.

La porcellana Mancioli si differenziava dalle porcellane da fuoco francesi, inglesi e tedesche, nonché da quella italiana (Ginori “pirofila”) [13] – le quali adottavano decorazioni a decalcomania, sopra smalto cotte a fuoco basso (non superiore a 880 gradi di calore), soggetta a veloce usura –, garantendo brillantezza dei colori, forme pure e decori raffinati e resistenza agli sbalzi termici e agli urti.

La porcellana Mancioli fu utilizzata per la prima volta nella nuova linea chiamata Oven King (Re del fuoco), sviluppata della seconda metà degli anni Cinquanta dal designer Fernando Farulli con la collaborazione di Giancarlo Casini e sotto la supervisione di Luciano Mancioli, sfruttava l’impasto esclusivo Mancioli e tecnologie all’avanguardia. Fernando Farulli disegnò anche il marchio. Fu presentata in forma sperimentale alla Fiera Campionaria di Milano del 1959, distribuita i da Christofle [14] e, l’anno seguente, esposta alla Triennale di Milano. Nel 1961 venne mostrata al Salone Internazionale della Ceramica di Vicenza, dove ottenne il premio “Andrea Palladio” [15], assegnato alle opere che soddisfacevano specifici requisiti di valore estetico, tecnico, esecutivo, formale.

Con la serie Oven King il settore “dal forno alla tavola” trovò un nuovo impulso grazie a un materiale capace di resistere a temperature estreme, utilizzabile in tavola, in lavastoviglie, in forno, in congelatore e, infine, nel microonde. L’azienda Mancioli compose la serie Oven King con un vasellame d’uso quotidiano, familiare e duraturo. Il catalogo, elegante e razionale, comprendeva pirofile, pentole, casseruole, teiere e caffettiere dalle linee ovali e rettangolari, stampi per soufflé e tortiere, e dettagli funzionali quali maniglie e incastri per i coperchi. I decori sobri e classici – “Edera”, “Autunno”, “Girasole” – valorizzavano la serie, conferendole un notevole slancio commerciale grazie all’equilibrio tra estetica, funzionalità e le esigenze di un mercato ancora conservatore, sia nazionale sia internazionale [16].

I successi e la crescente domanda concentrarono gli sforzi della Mancioli sulla produzione di Oven King, mettendo in luce alcune criticità che ne rallentavano lo sviluppo. Il consumo rapido delle forme in gesso per il colaggio consentiva appena 35 pezzi per stampo prima della sostituzione [17], e l’assenza di meccanizzazione nel processo produttivi comportava una perdita di utile pari al 40% e ne ostacolava l’espansione. L’impossibilità di ampliamento, dovuta all’ubicazione dello stabilimento in via Caverni, impediva l’adozione anche di una parziale meccanizzazione. La prima difficoltà costringeva gli operai a continui interventi di riparazione e ricostruzione delle forme, con ritardi e costi aggiuntivi; la seconda manteneva elevati i tempi di lavorazione manuale.

Queste problematiche, segnalate da tempo da Luciano Mancioli e confermate da Giancarlo Casini, dopo visite in Svezia e in Danimarca nell’agosto 1964 [18], portarono a una riorganizzazione produttiva, che rilanciò il settore della porcellana da fuoco e, in misura minore, quello della terraglia.
Furono poi le commesse per un altro grande successo dei Mancioli, la Caffettiera napoletana Letizia, a finanziare la costruzione di un nuovo stabilimento industriale ad Altopascio (Lucca), in posizione strategica vicino all’autostrada Firenze–Mare per le spedizioni. Nel 1966 fu posta la prima pietra della “Luciano Mancioli. Fabbrica di ceramiche artistiche – Porcellana da fuoco”, edificio progettato con criteri moderni, dotato di ampi spazi di stoccaggio, reparti separati per formatura e decorazione, e un’area dedicata alla manutenzione rapida delle forme in gesso. Mentre nello stabilimento di Altopascio prendeva avvio la produzione della nuova Caffettiera Letizia Espresso, a Montelupo la manifattura “Natale Mancioli & C.” proseguiva con la linea Oven King e i manufatti in terraglia.

La Caffettiera Letizia

In tutte le case moderne, il modo migliore per preparare il caffè è con “Letizia”. Chi non conosce il prodotto dei Mancioli potrebbe pensare che “Letizia” – evocando gioia e felicità – sia solo un concetto astratto, un modo di vivere il rito del caffè, quando in realtà è il nome dell’elegante caffettiera di porcellana, pensata per passare direttamente dal fornello alla tavola o al salotto.

Com’è noto, il rito del caffè mattutino è il cuore delle abitudini italiane, e non sorprende che aziende e designer si siano cimentati con l’arte della caffettiera fin dal lancio della leggendaria Moka Espresso Bialetti (1933). Anche Fernando Farulli dedicò attenzione a “una nuova moka per Luciano” (schizzi datati tra il 1960 e il 1965), evoluta nella raffinata Caffettiera Letizia (1965), ideata da Luciano Mancioli, realizzata da Fernando Farulli con la collaborazione di Giancarlo Casini.

Dalla fine degli anni Cinquanta Farulli si dedicò all’ideazione della serie di porcellane da fuoco distribuita col marchio Oven King. Numerosi progetti e studi su caffettiere e teiere, tra cui il progetto “Una moka per Luciano” – con un corpo in terracotta e un secondo in alluminio, in parte realizzati e inseriti nella serie Oven King, come il servizio da caffè composto da tazze, piattini, caffettiera, zuccheriera e lattiera [19] – hanno preceduto la caffettiera Letizia. Nonostante il successo, le ricerche continuarono, alternando studi per teiere e rivisitazioni di modelli, come la linea “72” con teiere Gipsy e Gill, ispirate alla lampada di Aladino.

La caffettiera espresso Letizia, composta da sei elementi perfettamente integrati, unisce eleganza e praticità: grazie al sistema brevettato [20] che permette di estrarre la parte in ceramica dal camino e portarla in tavola, insieme alla versione napoletana, determinò un netto incremento della produzione, avviata nel nuovo stabilimento di Altopascio.

Nello specifico, la Caffettiera napoletana Letizia è realizzata in porcellana Mancioli con filtro interno in alluminio, fu prodotta nel 1965 nelle versioni da 3 o 6 tazze e nelle finiture ocra, marrone bruciato e/o bianco decorato. La Caffettiera espresso Letizia, con camera superiore a forma di teiera in porcellana Mancioli libera di ruotare rispetto alla caldaia in alluminio (cappuccio metallico, filtro superiore e inferiore), fu prodotta anch’essa nel 1965 nella versione 3, 6 o 9 tazze, in finiture mogano e/o Greca blu bruciato.

Farulli curò ogni aspetto formale e cromatico della Letizia, incarnando i principi del design industriale: dal nome e dal logo alla progettazione del packaging. Ogni confezione fu studiata per unire funzionalità ed estetica in modo irresistibile, frutto dell’attenzione scrupolosa di Farulli, capace di conquistare, scatola dopo scatola, l’attenzione e il cuore del consumatore.

Parallelamente al design, i Mancioli condussero analisi di mercato per assicurare alla Letizia non tanto un aumento di fatturato, quanto un controllo rapido e duraturo del mercato nazionale: per questo triplicarono in breve tempo il numero degli acquirenti.

Al dì là dei numeri e della distribuzione, il successo di allora e di oggi, tra collezionisti e appassionati, conferisce alla caffettiera Letizia un ruolo nella storia del design Made in Italy, accanto alla linea Oven King, come precorritrice della filosofia “dal fuoco alla tavola”.


TESTIMONIANZE 


CREDITS / IMMAGINI 


INFO / NOTE TECNICHE 


IDEAZIONE / PROGETTO 


PRODUZIONE / PER 


RICONOSCIMENTI 


VIDEO 


TESTI | LIBRI | DOCUMENTI 


CONTATTI 





x


     
MUDETO PRODUCTS CREATORS PRODUCERS SEARCHING NEWSLETTER