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LGT/1-4, R 32 A (tipo beta)
[1948-1957]












SCHEDA PRODOTTO (on/off)




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COLLEZIONE MUDETO



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LGT/1-4, R 32 A (tipo beta) 
AREA TEMATICA Design per il Lavoro
TIPOLOGIA Microscopi, elettroencefalografo
ANNO 1948-1957
PROGETTO Ambrogio Carini (LGt/1-4), Pierluigi Spadolini (R 32 A - tipo beta)
PRODUZIONE / PER Officine Galileo
RICONOSCIMENTI Compasso d'Oro 1959 (LGt/2)

MOTIVAZIONE 


di: Maria Cristina Tonelli  [*]

Prima di affrontare la disamina specifica dei due prodotti “acquisiti” da MuDeTo in questa occasione, è necessaria una premessa – per quanto limitata e fugace – sul contesto generale nel quale entrambi vengono alla luce: premessa indispensabile, oltre che funzionale, per segnalare quei connotati disciplinari che il museo intende valorizzare anche nei riguardi della professione attuale.

Nei primi anni del secondo dopoguerra, il mercato italiano è definito sul fronte della domanda da una piccola borghesia e da un ceto operaio con ridotta possibilità di spesa, e da una media borghesia in affanno per ricostruire le sue certezze economiche, mentre da parte dell’offerta mancano quasi del tutto industrie con la capacità di produrre oggetti d’utilità, in serie e a basso costo. La loro assenza nega la possibilità di un confronto reale da parte del mondo del progetto tanto con le richieste sociali quanto con le logiche, di profitto e di produzione, del mondo industriale.

Tale scollamento comporterà di lì a poco diverse conseguenze. Da un lato si profilano imprese – quelle più vogliose di affermazione – con un profilo comunque artigianale che pur affidandosi al progetto per rinnovare il proprio catalogo non possono realizzare numeri produttivi e sono pertanto destinate, per la propria sopravvivenza, a rivolgersi a un mercato con buona possibilità di spesa, quindi a scegliere e perseguire per il proprio prodotto un posizionamento di “artefatto artistico” o culturalmente rilevante. Dall’altro lato, emerge un mondo progettuale incline a mettersi in gioco, nel migliore dei casi anche con intenzioni di fornire risposte socialmente impegnate, ma privo di un referente produttivo in grado di indirizzarlo e di motivarlo, per cui quel progetto resterà un esercizio con un destino produttivo incerto: prototipo di una serie impossibile o di una piccolissima produzione rivolta a un destinatario, con possibilità di spesa, ma magari disinteressato a quella soluzione.

Il contesto esposto nei suoi tratti essenziali spiega il conseguente, successivo percorso di molte aziende: scartare la difficile strada dell’impegno e rivolgersi a un mercato di nicchia. E quello del mondo del progetto: seguire l’azienda artigiana o semi artigiana, perché gli consente risposte meno impegnative e creativamente più stimolanti. Perciò in Italia è difficile parlare di Industrial Design se non quando ci troviamo davanti imprese impostate con tecnologie industriali e un vero senso commerciale della loro produzione. Certo, possiamo fare come il polimorfo decano Gio Ponti e dire che ogni prodotto, anche quello artigianale, è frutto di design, ma solo a patto di intendere tale, così mal tradotta, magica parola – design – nella sua sola accezione di elaborazione creativa, da giudicare con diversa comprensione a seconda del suo ambito applicativo, e non aspettarci dal suo ideatore tutte quelle competenze che sono parte del profilo di un industrial designer.

È chiarificatrice, in questo senso, l’idea di Ponti di promuovere la ripartenza della Richard Ginori, coinvolgendo i tecnici di Doccia e le loro presunte doti, tanto artistico-creative che di conoscenza del proprio mercato, in «un lavoro che non avevano mai fatto»: progettare soprammobili in maiolica, ovviamente da mettere poi in vendita. Se l’ipotesi di partenza poteva essere anticonformista e risolutiva di un momento ancora incerto, gli imbarazzanti risultati ottenuti, per i tempi e per la qualità ideativa – una congerie di dame, pistole, chitarre, torte, piccoli mobili –, nonché la decisione di commercializzarli da parte di Ponti provano la sua mancanza di consapevolezza dei valori del marchio aziendale e dei bisogni del momento, componenti fondanti per le decisioni progettuali di un vero industrial designer [01].

Cosa dobbiamo intendere, allora, per design? La posizione ondivaga, alla Ponti, o qualcosa di più specifico, collegato realmente alla dimensione industriale, riportabile in quegli anni al chiaro dettato di “Stile Industria” e del suo direttore, Alberto Rosselli, tanto per citare un intellettuale consapevole di tutte le sue implicazioni, benché prossimo – per associatura professionale e per scelta familiare – a Ponti?

Se usiamo la prima, il campo da prendere in considerazione si allarga. Pensando alla dimensione toscana, ciò ci fa piacere permettendoci di segnalare le ceramiche di Sottsass con la Bitossi, i vetri della Taddei, le paglie di Paoli, i mobili di tanti laboratori e mille altre cose ancora, in un lungo elenco, confortevole, perché è chiaro che tutte le realtà citate, e molte altre, avevano un aiuto progettuale alle spalle, che fosse un collaboratore esterno o lo stesso proprietario, capace di questo per formazione, pratica o riflessione sui dati di mercato. Ma se consideriamo la struttura produttiva, le modalità di esecuzione, i numeri prodotti e il prezzo di quel prodotto – confesso questi ultimi due parametri praticamente ignoti (anche nel mondo veramente industriale, con poche, solitarie eccezioni) –, si configura un’altra situazione.

Siamo davanti ad aziende vivaci, intraprendenti, con splendidi risultati, che piegano i numeri alla presenza di una numerosa, e poco costosa, forza lavoro, ma esse non sono vere e proprie industrie, né sanno trasformarsi in tali. Presentano risultati appaganti, ma sono per loro natura pronte a interrompere o invertire velocemente una produzione, non solo per la flessibilità della loro organizzazione produttiva, ma per una mentalità d’impresa che non si dà una rigorosa strategia prefissata. Disponibili all’ascolto, editano – penso a quelle di mobili – ogni proposta offerta con grande soddisfazione dell’architetto proponente, fidandosi delle sue intuizioni, senza essere sostenuti da studi sul consumo o sul gradimento del pubblico, che per altro non esistevano, incapaci di uno sforzo di autonoma riflessione. Il mondo della critica, con Ponti in testa, saprà valorizzare questa abbondanza di voci a vantaggio del progetto italiano, presentando come ricchezza creativa la pluralità, anche cacofonica, di voci [02], ma un tale comportamento non sarà utile per molte delle aziende coinvolte, non darà sostegno alla loro possibile riorganizzazione produttiva o alla creazione di un loro catalogo omogeneo e correlato con le vere attese del mercato.

Alberto Rosselli ha cercato, invece, di spiegare cosa fosse l’Industrial Design o quello che da noi veniva chiamato disegno industriale. Lo ha fatto prima, dal 1949 al 1954, nella rubrica di “Domus”, affidatagli da Ponti, Disegno per l’industria, poi dalle pagine di una rivista, dedicata al design industriale, “Stile Industria”, dal 1954 al 1963 [03]. Lo ha fatto con rigore, con competenza, con esemplificazioni utili sottolineando della disciplina il compito di servizio, il significato sociale, l’impegno etico, indicando come si applichi ad ogni settore, dalla prefabbricazione edilizia all’oggetto d’uso, dall’arredo urbano alla grafica correlata alla comunicazione del prodotto, dal package al mobile, di serie, portando in questo caso la testimonianza di aziende straniere, nate artigianali, anche con pochi addetti – come la gran parte delle nostrane –, in seguito passate a logiche produttive diverse semplicemente con una nuova filosofia di progetto e una nuova strategia di produzione, ma in rapporto al settore di mercato individuato e alle esigenze dei suoi appartenenti. Esplicita un metodo di lavoro per il progettista, mentre spiega il ruolo, in questo rapporto, dell’industriale e del suo ufficio tecnico per instradare quel “lavoro corale” da cui scaturisce un prodotto di buon disegno.

Nonostante il rigore e la competenza profusi nel delineare le direttive disciplinari essenziali, all’impegno di Rosselli fa riscontro una sorta di indifferenza da parte del mondo industriale. L’impreparazione di molti dei produttori italiani verso uno sviluppo dei loro prodotti coerente con una qualità di forma, che lui notava, veniva motivata dalla loro paura di coinvolgere un designer fin dalle prime decisioni circa un nuovo prodotto, dalla loro sfiducia nelle sue competenze tecniche e nella sua mentalità troppo proiettata verso problemi di stile, indotta dalla sua provenienza dal mondo dell’architettura. Insomma l’industriale medio italiano peccava di chiusura, di diffidenza, di miopia mentale, ma Rosselli le giustificava per l’assenza di scuole in Italia che preparassero al lavoro di designer, per il limitato potere d’acquisto degli italiani, per l’abitudine a produrre in piccola scala e in modo poco costoso, dato questo che permetteva di modificare facilmente le forme o di aggiungere una nuova linea di produzione, in una sorta di atteggiamento ancora artigianale nella conduzione dell’impresa industriale.

Per me, è chiaro, il design è quell’Industrial Design che racconta e testimonia Rosselli. Un taglio critico che comporta alcune rinunce rilevanti rispetto a molta documentazione toscana che, analizzando attentamente le pagine di “Domus”, viene segnalata. Rinunce che sono però compensate dalla sensazione quasi inebriante di avventurarsi in acque assai poco frequentate sia dalla pubblicistica – pressoché inesistente in determinati ambiti produttivi – sia dalla saggistica – lacuna assai più grave – recente e passata, quando troviamo presenze inaspettate. Come quelle testimoniate dalla produzione delle Officine Galileo, realtà certo territoriale, ma con una forte e pluridecennale connotazione produttiva nazionale soprattutto nella costruzione di strumentazione di alta precisione, ottica e meccanica, che le aveva ascritto riscontri di rilievo da parte del mondo civile e militare, in particolare dalla Regia Marina, una dei suoi principali committenti fin dalla Prima guerra mondiale. Ciò aveva portato l’azienda a logiche sempre più stringenti di razionalizzazione e standardizzazione dei processi e di stretto collegamento con la ricerca scientifica.

Come segnalato a proposito della precedente “acquisizione” MuDeTo – la serie di macchine fotografiche Condor e la mini-fotocamera GaMi 16 –, nel 1945 l’azienda si trova in una situazione estremamente difficile, con stabilimenti e macchinari in gran parte distrutti. La ripresa si organizza però in tempi rapidi, riconvertendosi ad ambiti non strategici e a una produzione di immediata utilità civile, testimoniata da apparecchi vari, dal semplice contatore elettrico ai macchinari per il ripristino delle attività tessili, documentati questi nella sua partecipazione alla XXVI Fiera di Milano, nel 1948. Al contempo, in stretta concomitanza, ricomincia l’attenzione per prodotti di maggior respiro tecnico scientifico. Molte le categorie affrontate, anche se poco documentate per il loro specialismo, che le ha rese note agli esperti, ma manchevoli di una registrazione più diffusa.

Microscopio LGt/1, LGt/2, LGt/3, LGt/4

Fra i tanti settori di produzione del dopoguerra affrontati dalle Officine Galileo, persiste quello dei microscopi, dove già si era guadagnata la fama di eccellenza nel periodo fra le due guerre, e se ne attiva uno dedicato alle apparecchiature per il mondo medico. Ovviamente, anche in questo caso, è solo per casuale fortuna se incontriamo qualche modello, conservato in un museo o illustrato in una rivista. La specificità di questi apparecchi, interessando solo le persone coinvolte nella loro definizione o nel loro uso, entrano difficilmente nei repertori dedicati al prodotto industriale, semmai in quelli, più rari, a carattere tecnico. Per questo – come nel caso delle citate macchine fotografiche della serie Condor e la piccolissima GaMi 16 – devo ancora ringraziare Alberto Rosselli che dedica – nella rubrica su “Domus” [04] e poi in “Stile Industria” – articoli e documentazione di apparecchiature tecniche, per spingere l’interesse del lettore a una visione più ampia degli ambiti progettuali esistenti.

Due sono le occasioni in cui l’attenzione della rivista si concentra sull’offerta della Galileo di microscopi e dei loro accessori. La prima è fornita da un articolo che Gillo Dorfles dedica al progetto degli strumenti di precisione per sottolineare come esistano, fra le produzioni industriali, modi diversi di concepire il corpo dell’oggetto in rapporto al tipo di utenza e al desiderio di «accontentare o stupire l’occhio dell’acquirente»: da un lato quello che idea una «carrozzeria» sottolineandone in minima parte i motivi funzionali, per renderla più seduttiva per il consumatore; dall’altro quello che stabilisce «un’aderenza quasi assoluta» al suo scopo, per quelle tipologie non solo più tecniche, ma – aggiungo io – solamente usate da tecnici.

La logica di progetto guarderà allora ad altri valori: chiarezza, stabilità, facilità e funzionalità d’uso, maneggevolezza, sicurezza. E le forme di questi apparecchi assumeranno configurazioni diverse a seconda della loro diversa funzione o dei limiti dei loro compiti. Fra gli oggetti di questo tipo messi a confronto svetta un illuminatore per microscopi da ricerca, per uso clinico o per metallografie, della Galileo: sobrio nelle dimensioni, definito da alette per la dispersione del calore e dotato di una serie di filtri colorati per eseguire osservazioni e microfotografie con la luce più appropriata, si presenta come un accessorio di utilità, chiaramente definito, senza alcuna sovrastruttura ingannevole. «Cupo e leggero» lo definisce Dorfles, con una qual poetica locuzione [05].

Dove, questo illuminatore, andasse posizionato lo chiarisce l’altra scheda dedicata dalla rivista alle Officine Galileo. In un articolo del 1960 che illustra prodotti italiani ben progettati – radiatori, frullini e lampade stradali –, svetta il microscopio modello LGt/2, che si era aggiudicato il Compasso d’Oro nel 1959. Vi tralascio la motivazione del premio che, come molte altre, è spesso formulata in modo eccentrico. Pensate che sottolinea come questo modello «rifugga da ogni compiacenza di moda che sovente interviene nella progettazione degli strumenti di laboratorio», considerazione che, ragionevolmente, non dovrebbe appartenere alla categoria che stiamo considerando [06].

Con maggiore e sottile pertinenza, “Stile Industria” ne indica come tratti salienti «la coerenza» dell’insieme e la sua «unità formale» che spiega con «la previsione di ogni suo elemento in sede di progettazione». Con un metodo, cioè, di corretta impostazione progettuale, che dovrebbe essere proprio di qualsiasi azienda. Giustamente, poi, avverte che dal punto di vista tecnico l’apparecchio non presenta alcuna specifica innovazione ma che sorprende per lo studio «attento e razionale» di ogni parte e per la loro felice correlazione [07]. Tratto distintivo è la possibilità di innestare all’apparecchio un visore, in sostituzione del tubo mono o bioculare, in modo da condividere la visione ingrandita del preparato con più studiosi. Direi che questa sia la reale novità dell’oggetto, dettata da una probabile, precisa richiesta o dalla attenzione, da parte del team progettuale, di corrispondere le modalità proprie della ricerca scientifica, dove compartecipazione e lavoro di gruppo sono regole di base [08].

L’altra annotazione che merita rimarcare in questa sede è la previsione dell’innesto con quell’illuminatore prima segnalato, cioè con un accessorio già in catalogo, attuale per uso e prestazione, a indicare da parte del gruppo di progetto una “strategia” di connessione con i propri prodotti e attenzione alla loro giusta valorizzazione. A ribadire questi nessi è anche l’adattatore, previsto per la GaMi 16, che permette di applicarla al tubo oculare di un qualsiasi microscopio della Galileo, in modo da avere istantanee di documentazione della ricerca, senza ricorrere ad apparecchiature più complesse e costose. Per di più, in rapida sequenza e con il vantaggio ulteriore di non surriscaldare il preparato sia per la modesta sorgente di luce necessaria che per la prevista velocità di scatto. Si evince, quindi – semmai avessimo avuto qualche dubbio –, che la Galileo era adusa progettare con una ferrea logica di corrispondenza e di componibilità dei suoi prodotti.

Quanto trattato fin qui, è frutto del capace centro progettuale interno alla sezione milanese delle Officine Galileo, all’epoca diretta proprio dall’autore della GaMi 16, Ambrogio Carini, che certamente non si è limitato a coordinare il lavoro di equipe dei diversi operatori aziendali coinvolti, ma ha senz’altro inciso a priori nel definire le prerogative sintattico-progettuali di un prodotto significativamente “aperto” a un ampio spettro di soluzioni applicative. Al punto che pare quasi un’ulteriore “svista” critica l’aver concesso il Compasso d’Oro solo a uno dei diversi assemblaggi del microscopio piuttosto che al progetto d’insieme dell’intera articolata gamma LGt il cui avvio risale alla fine degli anni 40, ossia un decennio prima del prestigioso riconoscimento.

Elettroencefalografo R 32 A (tipo beta)

Un altro prodotto documentato da Rosselli ci rivela, poi, l’elasticità mentale del suo gruppo dirigente: l’elettroencefalografo R 32 A tipo beta, progettato da Pierluigi Spadolini nel 1956 [09].

Due domande dovrebbero scattare. Perché l’azienda, che non era adusa a farlo, si rivolge a un progettista esterno? Come nasce questa collaborazione? La nutrita bibliografia sull’architetto fiorentino non le scioglie e nemmeno le affronta.

A questa data Spadolini era un giovane architetto, ma già con una bella esperienza, anche nel campo dell’arredo, avendo già prima della laurea tardiva lavorato nello studio del suocero, Raffaello Fagnoni. La vera storia del suo primo incarico architettonico – «un grossissimo lavoro professionale» –, il Centro Traumatologico Ospedaliero a Careggi, ce la narra con la consueta, dissacrante verve Giovanni Klaus Koenig [10]. Intraprendenza, sicurezza di sé, sprezzo del rischio ne sono le componenti, insieme alla disponibilità all’ascolto delle richieste pressanti e frenetiche di Oscar Scaglietti, grande luminare, fra i fondatori della chirurgia ortopedica italiana, futuro direttore di quel grande ospedale specialistico che si andava realizzando.

Mi attardo su queste informazioni per trovare una possibile risposta alla seconda di quelle due domande. Spadolini all’ipotetica data dell’incarico della Galileo (1955 circa) aveva già iniziato la sua collaborazione con la (milanese) Radiomarelli, fatto che, in quel panorama fiorentino carente di designer e di contatti con Milano, doveva apparire curioso e sorprendente, così come la persona, professionalmente parlando, sconcertante e singolare per apertura intellettuale. Certamente ciò, nella piccola Firenze indiscreta e chiacchierona, doveva essere risaputo, arrivando alle alte sfere della Galileo, ma non esaurisce la risposta.

Si potrebbe piuttosto ipotizzare un qualche contatto che intercorresse fra il progetto dell’ospedale, che doveva ospitare reparti clinici, operatori, didattici e di ricerca, le esigenze di Scaglietti e le Officine Galileo per le future dotazioni di apparecchiature sanitarie e di ricerca scientifica. E, poiché usualmente da cosa nasce cosa, l’idea di affidare a Spadolini la progettazione dell’elettroencefalografo potrebbe essere partita da lì. Ma è solo un’ipotesi. Anche perché ne è possibile un’altra, che non esclude la prima. Pare, infatti, che un cugino di Pierluigi, figlio dello zio Igino, docente universitario di Fisiologia umana, lavorasse alla Galileo come ingegnere e che ne abbia suggerito il nome.

Più facile è giustificare invece la scelta di un progettista esterno, rimandandola a un motivo determinante, che va a lode della coscienziosità della Galileo. A differenza di altre apparecchiature, questa non era destinata a un personale specificatamente tecnico. Il suo utilizzatore sarebbe stato un medico o un neurologo, che sottoponeva a indagine un paziente, ovviamente in sua presenza. Era richiesto, quindi, che lo strumento, da un lato, fosse semplice nella strumentazione e ben impostato nella restituzione del tracciato, per facilitare il compito del personale sanitario, dall’altro, non intimorisse il malato né per forma né per particolari suoni che emettesse, in modo che egli restasse tranquillo e rilassato durante tutta la durata dell’esame.

In altri termini la tipologia d’uso prevista per il prodotto e il sistema di relazioni nel quale il prodotto si proponeva d’intervenire, richiedeva un approccio non meramente tecnico-funzionale. Esigeva, cioè, un progettista sensibile nel prevedere le reazioni umane, che non ritenesse il suo intervento concluso nel circoscritto studio di un involucro corrispondente ai meccanismi interni. Un particolare, poi, va segnalato: un elettroencefalografo, a questa data, è un apparecchio ancora insolito. Prima della guerra solo il Massachusetts General Hospital vantava un laboratorio con questo tipo di macchinario, basato sugli studi condotti da Hans Berger all’Università di Jena nella seconda metà degli anni Venti, poi ripresi negli Stati Uniti. Ciò spiega l’interesse della Galileo, ma anche la sua prudenza.

La scheda che correda l’immagine riportata da “Stile Industria” non a caso parla del desiderio della azienda di dare una migliore disposizione ad attrezzature «nate come grandi telai contenenti una infinita quantità di congegni elettrici senza alcun ordine esterno di praticità e di estetica», limitandone l’ingombro e consentendo la facile accessibilità di tutti i comandi. Nonostante la “novità” tipologica non sia irrilevante, nelle “mani” di Spadolini l’assai più complessa attrezzatura medica riesce persino a far affiorare una continuità di linea produttiva. Come si può apprezzare osservando una veduta d’insieme dello stand delle Officine Galileo presente nel Padiglione degli apparecchi e materiale odontoiatrico-sanitario della Fiera Campionaria di Milano del 1953 [11], l’abilità e la scaltrezza del progettista si riscontra in particolare nella sapiente adozione “variata” di alcuni standard sintattico-produttivi già presenti nel “catalogo” aziendale, come, ad esempio, il prominente piano inclinato dei principali comandi in uso all’operatore e, disposto esternamente al carter del prodotto, il supporto tubolare di sostegno.

Di quest’ultimo, in particolare, Spadolini alleggerisce l’impatto sia ridefinendo sensibilmente gli angoli fra gli assi – uscendo così dalla rigida ortogonalità verificabile nel triennio precedente –, sia inglobando accortamente il sistema di sostegno metallico nelle fiancate laterali e posteriori del contenitore strumentale, in modo da occultare parzialmente la vista dello sviluppo tubolare tanto nella porzione orizzontale alta quanto in quella verticale retrostante dell’apparecchio. In altri termini creando una sorta di dialogo fra carter della strumentazione e sistema strutturale aggregato di sostegno e di movimentazione, che si rivela efficace sia nel dinamizzare che nel mitigare l’effetto plastico dell’insieme.

Ne viene un apparecchio con un corpo a sbalzo, sostenuto da una struttura in tubolare dotata di ruote, ma indipendente dai pannelli metallici che rivestono il corpo dell’apparecchiatura, in modo da consentirne la facile rimozione per l’eventuale ispezione degli apparati interni. L’insieme appare innocuo. Nessun meccanismo o ingranaggio è a vista. Solo sul piano a sbalzo, in formica grigia, sono visibili una serie di tranquille file di manopole nere, mentre è sul suo retro, per non impressionare il malato, che è predisposto lo scorrimento della carta di registrazione del tracciato. Il colore tenue e la pulizia formale dell’apparecchio concorrono a deprivare il paziente di ogni senso di panico, così come il suo ordine semplifica le azioni del medico, al quale, per la configurazione dell’apparecchio, si consente di lavorare, più comodamente, da seduto. Non piccolo risultato per un giovane designer!


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