di: Umberto Rovelli 

Umberto Rovelli (Bologna, 1962). Laureato in Architettura, dal 1996 al 2018 è socio di Blue Klein, web agency impegnata nel campo multimediale per la promozione della cultura del progetto su Internet. Dal 2005 dirige la rivista IdeaMagazine.net. Dal 2008 al 2016 cura gli aggiornamenti del web ADI Toscana progettato da Blue Klein. Socio ADI dal 2010 al 2015, è curatore dei volumi MuDeTo Collection (MuDeTo, Firenze 2014, 2015, 2016-'17), Mauro Pasquinelli Designer (Bandecchi&Vivaldi, Pontedera 2013) e Interviste sul Progetto pubblicato nella Collana ADI (Franco Angeli, Milano 2011). Ha collaborato con le riviste “Op. cit.”, “Juliet Design Magazine”, “Paesaggio Urbano”, “ReportBio”, “Firenze Spettacolo”. Ha pubblicato contributi in: Adriano Piazzesi (Pontecorboli, Firenze 2016); Vincenzo Missanelli. Opere con un'antologia critica (Bandecchi&Vivaldi, Pontedera 2015); Antonio Possenti un lungo viaggio (Pacini Fazzi, Lucca 2013); Adriano Piazzesi. Arte nel silenzio (Polistampa, Firenze 2012); Massimo Mariani. Progetti 1980 - 2005 (Verba Volant, London 2005); Labyrinthos (Alinea, Firenze 1994). [x]

Come accennato anche a proposito del progetto G-Full di Nilo Gioacchini, nella lettura critica del design a cavallo degli anni 60 e 70 s’è determinata una sorta di cono d’ombra ispettivo che ha riguardato in particolare alcune figure partecipi di una situazione – quella toscana – molto promettente sia dal punto di vista formativo sia da quello dell’attenzione che alcune realtà produttive [01] si dimostravano disposte a concedere nei confronti dei nuovi linguaggi emergenti. In particolare alle proposte di nuovi autori desiderosi di cimentarsi con una materia non ancora inflazionata come il furniture design.

[01] La figura di Sergio Cammilli con Poltronova ad Agliana innazitutto, ma anche alcune giovani aziende come affermerà più tardi Carlo Bimbi «dominate dal desiderio di cambiamento d’immagine come dalla speranza di ben figurare al confronto con le più altolocate ed avanzate produzioni del nord Italia». Carlo Bimbi, Del progetto a molte dimensioni, in Umberto Rovelli (a cura di), Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net, Franco Angeli - Milano 2010.

Si assisteva in quegli anni in Toscana ai disparati effetti di una stagione rivoluzionaria e dirompente delle stesse nozioni di “abitare” e “vivere insieme”, volta in particolare a fondere nel progetto di design – sempre più inteso sui generis – linguaggi e strumenti della visione, della costruzione, dell’azione, del cinema e della comunicazione. Giungeva in quegli anni a maturazione la consapevolezza che dalla lezione del Movimento Moderno fossero restate ingiustamente escluse istanze e suggestioni tipiche di culture e territori – ad esempio l’India, il Giappone – estremamente feconde, almeno in fieri, per la creatività progettuale tout court.

In altri termini in nome di un reale provincialismo (che per la Toscana e Firenze in particolare rasentava l’anti-modernismo) si affilavano gli strumenti necessari per riassorbire ogni componente specialistica del progetto nell’alveo a-specifico e genericamente “rivoluzionario” dell’Arte (eletta a disciplina guida anche in quanto aveva ormai dimostrato sul campo la propria vittoria spirituale sull’Accademia) tagliando il cordone ombelicale con un contesto pratico consolidato e, per certi versi, reazionario.

Si avviava in quel periodo la prima fase di un de-radicamento pieno di insidie psichiche, in quanto “aprire” al resto del mondo, alle culture “altre” implicava una sorta di suicidio simbolico della propria “cultura” ritenuta – a torto o a ragione –, egemone, oppressiva, illecitamente prescrittiva. De-radicare il progetto dalla cultura originaria, autoctona (come afferma Emmanuel Lévinas in Totalità e Infinito, «Autoctono è nello stesso tempo / un attributo di sovranità e di sottomissione») implicava una sorta di necessaria di perdita di sé, l’ablazione della profonda e sapiente matrice territoriale identitaria che aveva comunque subìto (in particolare agli occhi dei movimenti in seguito definiti “avanguardia”) un processo di sterilizzazione riassumibile nel passaggio (ovvero nel declassamento) da “cultura” dominante (capace di esprimere valori universali, “visioni di mondo” condivisibili da altri) a “stile” egemone (vincolato a pratiche e tecniche a loro volta derivato irriflesso di un’arbitraria, immotivata e altrimenti immotivabile “difesa del suolo”) [02].

[02] E per molti dei protagonisti di questo periodo tale auspicata perdita di radici da norma etica progettuale si è tradotta in reale abbandono della regione.

D’altro canto, la reazione dei gruppi dell’avanguardia radical toscana esprimendo una netta cesura generazionale con la linea che da Domenico Cardini [03] (1913), Edoardo Detti (1913), Leonardo Savioli (1917) e Leonardo Ricci (1918) risaliva fino a Raffaello Fagnoni (1901) e Giovanni Michelucci (1891), poneva anche le basi per la messa a rischio di quell’alveo di contiguità che da sempre aveva inteso design e cultura materiale come due facce della medesima moneta.

[03] Relatore di tesi di Andrea Branzi.

Nelle versioni meno avvedute l’innesco de-radicante era colto come una ghiotta occasione per tradurre integralmente il design come materia intellettuale (o nei migliori casi materia poetica), spogliata di ogni richiamo al traditum, ovvero di ogni stratificazione sociale condivisa in un tempo e in luogo, consentendo il necessario affievolirsi della cogenza e del senso connesso a valori e prassi desumibili da un contesto socio-antropologico dato. Indebolimento che consentirà di lì a poco la conquista di quella opportuna “superficialità” disciplinare (non a caso L’invenzione della superficie neutra sarà il titolo della mostra organizzata da Abet Laminati nel 1972) che aprirà per il design la ricca stagione del pastiche post-moderno.
Nessuna futura leggerezza o “banalità” avrebbe potuto innervare liberamente il design se quest’ultimo non fosse riuscito, a sua volta, a liberarsi dal fitto intrico di opzioni secolari che connettevano arte, artigianato e produzione industriale di oggetti domestici e da lavoro. La cultura del progetto, finalmente recisi i legami con l’era immutabile di Kronos, poteva definitivamente de-materializzarsi come progetto culturale tout court, ossia, in altri termini, caratterizzarsi di quella «prevalenza del concetto sull’oggetto» che come effetto/deriva non poteva che determinare «lo scolorirsi della progettazione nel confuso universo dei comportamenti»[04].

[04] Franco Raggi, Italy: The New Domestic Landscape, “Casabella”, 366, 1972.

Comunque fosse inteso, il progetto fortemente intellettualizzato dell’avanguardia, teso a liberare il design sia dallo stilismo moderno sia da quello tradizionale, vedeva protagoniste figure ed equipe progettuali oggi “leggendarie” come Archizoom (Andrea Branzi, 1938; Paolo Deganello, 1940; Gilberto Corretti, 1941; Morozzi Massimo, 1941; Dario Bartolini, 1943; Lucia Bartolini, 1944), Gianni Pettena (1940), Remo Buti (1932), Superstudio (Adolfo Natalini, 1941; Cristiano Toraldo di Francia, 1941; Roberto Magris, 1935; Alessandro Magris, 1941; Gianpiero Frassinelli 1939), UFO (Lapo Binazzi, 1943; Carlo Bachi; Patrizia Cammeo; Riccardo Foresi, Titti Maschietto), Zziggurat (Alberto Breschi, 1943; Gigi Gavino; Roberto Pecchioli), 9999 (Fabrizio Fiumi, 1943; Paolo Galli).

Quest’ultime, pur rappresentando un segmento ridotto degli attori in gioco sul palcoscenico disciplinare, beneficiarono di enormi attenzioni da parte della stampa di settore in contrasto stridente con la realtà storica della regione che in quegli stessi anni poteva contare sull’opera di molti maestri sullo sfondo (quasi tutti rinserrati nell’auto-referenza secondo un’ottica avanguardistica) come ad es. il già citato Giovanni Michelucci, Giovanni Gariboldi (1908), Aldo Londi (1911), Adriano Piazzesi (1923), Luciano Grassi (1927), Luciano Nustrini (1928), accanto ad astri nascenti come Paolo Parigi (1936), Marzio Cecchi (1940), Roberto Segoni (1942), Alessandro Becchi (1946) oltre ai gravitanti “milanesi” – Ettore Sottsass jr. (1917), Angelo Mangiarotti (1921), Gae Aulenti (1927), Joe Colombo (1930), Massimo Vignelli (1931), Studio DDL - De Pas (1932) D’Urbino (1935), Lomazzi (1936), ecc. che – complici la straordinaria attività di Sergio Cammilli con Poltronova e l’attrattiva di piccole aziende dai peculiari talenti, come ad es. Bitossi Ceramiche, Arnolfo di Cambio, Up&Up –, intrecciavano relazioni sempre più frequenti, non a caso, proprio con le materie e l’imprenditoria locali.

A proposito di questa sbilanciata attenzione rivolta dai media nazionali ed internazionali di settore ai gruppi più noti legati al movimento radical (quest’ultimi, ovviamente, “vittime” incolpevoli del fenomeno), nel 1983 dalle pagine di “Parametro” Giovanni Klaus Koenig, avrebbe dedicato un ironico accenno segnalando come «i sogni ecologici del Superstudio, con le loro dodici città ideali (dopo i disegni di Archigram, le immagini più pubblicate del mondo) rimbalzavano dalle pagine patinate di “Casabella” al Giappone, dagli Stati Uniti fino al posto più inaspettato: l’Università di Mosca. I rari laureati sovietici che potevano fare il viaggio in Italia avevano un pensiero dominante: conoscere “Adolfo da Pistoia”, che non era il cugino di Mino da Fiesole o il nipote di Benedetto da Maiano, ma il professor architetto Natalini Adolfo della facoltà fiorentina di architettura. Il professor Vladimir S. Tikhonov (siamo vicini al vertice del Presidium) mi dimostrò esser un appassionato cultore di Superstudio, e sarei pronto a scommettere che allo zar Andropov, noto anche come cultore d’arte contemporanea, il nome di Andrea Branzi è più familiare di Giulio Carlo Argan»[05].

[05] Giovanni Klaus Koenig, L’avanguardia e il kitsch, “Parametro”, n. 113, 1983.

Anzi, sintetizzando la rapida sequenza degli eventi, Koenig compendiava i primi tre lustri dell’avanguardia nel suo passaggio da antitesi del kitsch – del decorativismo e dello “stile” di ogni epoca (pienamente avvertibile, a detta di Koenig nei progetti presentati al MoMA di New York nel 1972), – a sinonimo del kitsch stesso. E ciò in quanto in quel breve lasso di tempo “le avanguardie” avevano finito col diventare, volenti o nolenti, «gli Uffici studi dell’industria culturale nella civiltà dei consumi. E come le industrie mantengono gli ingegneri più inquieti e fantasiosi negli Uffici studi, solo apparentemente lontani dalla produzione, così il successo delle avanguardie si» doveva «al supporto delle ditte produttori del design più kitsch, che sanno benissimo che questi apparenti loro detrattori sono in realtà i migliori produttori delle idee più folli, pronte ad alimentare il consumismo più sfrenato del futuro»[06].

[06] Giovanni Klaus Koenig, Op. cit.

Giudizio forse fin troppo tranchant ma comprensibile in quanto espresso da uno dei più fieri e intelligenti antagonisti di tale deriva, consapevole ormai della prossima disfatta nei confronti di quel dilagante fenomeno che dimostrerà la propria pervasiva efficacia in particolare nel terzo millennio (con la tappa fondamentale di Family Follows Fiction di Alessi nei primissimi anni 90) allorquando le stesse modalità di produzione, a fronte delle nuove tecniche di auto-materializzazione del progetto, daranno modo a molti di interrogarsi sul senso e sul ruolo della stessa imprenditoria in un sistema prodotto che non sembra ormai più avere al centro la categoria del lavoro.

Sulla soglia di quei due decenni magici per il design italiano, la possibilità di emergere e ottenere il meritato riconoscimento professionale in Toscana sarebbe parsa ai più impresa ardua, così come arduo, per professionisti alle prime armi, sarebbe stato ritenersi in grado di porsi a distanza di sicurezza sia dal potere seduttivo del traditum sia dalle sirene del progetto de-radicato che in quegli anni sferravano i loro colpi più genuini e assordanti assicurandosi, come detto, un peculiare interesse permeato da nemmeno troppo celate intenzioni “controriformistiche” da parte dell’imprenditoria alto-borghese.

Ma emergere in un mestiere che sta vivendo a tutti i livelli professionali un’impennata di interesse mediatico non è forse il problema essenziale. E nemmeno essere richiesti, avere opportunità di lavoro, acquisire familiarità col territorio imprenditoriale equivale ad assestarsi economicamente. In particolare a Firenze, città provinciale e a contenuto tasso industriale che, oltre a manifestare la propria incapacità a coagularsi in e su movimenti unitari, si palesa sempre più «satura» di forme di vita progettanti sia sul fronte avanguardistico sia su quello più consolidato nel pur breve periodo postbellico.

Come avrà modo di segnalare lo stesso Carlo Bimbi le aziende toscane derivano, e si stabiliscono come tali, «a partire da una forte impronta artigianale che connota il fare produzione in Toscana. Un approccio produttivo che forse è definibile come più creativo, o magari anche più romantico». Si tratta di una peculiarità non irrilevante che «distingue le aziende toscane da quelle del nord», ovvero «un radicamento o, meglio, una connessione più serrata tra mondo imprenditoriale e mondo artigianale»[07].
Il contesto toscano è dunque ingannevolmente partecipe alle istanze e ai fermenti innovativi (comunque intesi), l’affinità tra mondo creativo e la spiccata propensione nei confronti della novità che l’imprenditoria locale manifesta è una sorta di empatia fittizia, sia in quanto delle proposte non viene quasi mai colta l’intima natura sistemica, sia perché le attenzioni rivolte alla specifica cura esecutiva del progetto non sono adeguatamente supportate dalla leva comunicativo-commerciale.
Non a caso l’attenzione mediatica offerta ai gruppi radical è da imputarsi assai meno al contributo e all’attenzione del territorio (anche se va perlomeno menzionata la meritoria attività del Centro Di e di Lara Vinca Masini) che dei media nazionali e internazionali (fatto, tra l’altro, che avrebbe contrassegnato come “romantico” lo stesso rientro in Toscana di Bimbi e Gioacchini dopo la parentesi milanese).

[07] Carlo Bimbi, Op. cit.

Sempre a cavallo fra gli anni 60 e 70, il tasso di competitività nel contesto toscano era per così dire reso più intenso anche in ragione dell’elevata qualità formativa offerta sia dall’Università di Firenze – dove oltre ai citati insegnano Angelo Gillo Dorfles (1910) cui subentra Umberto Eco (1932), Ludovico Quaroni (1911) e Marco Dezzi Bardeschi (1934) –, sia dal corso specifico di Disegno Industriale avviato, fin dal 1962, presso l’Istituto d’Arte di Porta Romana. Quest’ultimo, come noto divenuto sede dell’ISIA - Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Firenze, avrà come direttore Angelo Maria Landi e tra i docenti Pierluigi Spadolini [08] (1922), Leonardo Benevolo (1923), Giovanni Klaus Koenig (1924), Vittorio Franchetti Pardo (1928) oltre a quel Gianni Ferrara (1928) che, dopo essere stato insegnante di modellistica di Carlo Bimbi e Nilo Gioacchini, sarà loro sodale presso lo Studio Internotredici.

[08] Relatore di tesi di Remo Buti.

Bimbi (1944) e Gioacchini (1946), sono solo di poco più giovani di Branzi, Pettena e Natalini, ma, come molti ricordano, in quegli anni movimentati bastano pochi mesi perché si crei un baratro esperienziale: da una parte si è studenti alle prese con esami e tesi; dall’altra si progetta per concorsi o meglio ancora per attente committenze disposte a fare prodotto (ovvero anche solo prototipi) a partire da ricerche sperimentali, innovative, “situazioniste”, forse non del tutto astrattamente utopiche, ma decisamente di rottura. Da un lato si è quindi parte di un sistema gerarchico precostituito mentre dall’altro (con solo tre/quattro anni di differenza) si può già manifestare dissenso contro quel medesimo sistema ed essere parte attiva di un movimento montante che desta sempre più interesse e curiosità in molti ambienti colti della società alto-borghese.

Ma anche astraendo dallo scostamento cronologico fra gli autori considerati, tra la formazione di Internotredici – decisamente più specifica, volta a favorire relazioni e “confidenze” sia col lavoro manuale sia con l’industria, sia infine con la natura sistemica del progetto industriale di oggetti – e il percorso formativo universitario dei protagonisti del radical design – assai più squisitamente intellettuale e sui generis rispetto al mondo produttivo vero e proprio – esiste un divario non indifferente. Non se ne apprezzano per ora gli effetti più estremi, in parte per il numero ridottissimo di operatori “non laureati” sul campo, in parte perché l’ISIA ha una sincera matrice “artistica” (dunque più metico-umanistica che meramente tecnico-commerciale), in parte perché il vero “calmiere” dello spread formativo sono le figure centrali di Spadolini e Koenig che – attive tanto nell’insegnamento quanto nella progettazione reale di architettura e design –, gravitano su entrambe le “offerte” formative. Oltre a ciò, occorre aggiungere che la qualità del corpo insegnante dell’epoca è comunque assai elevata su entrambi i fronti (il che probabilmente preserva il futuro degli alunni sia dallo scollamento tra formazione e professione – e, all’opposto, fra tecniche e senso del fare – che comincerà a evidenziarsi soltanto un paio di decenni più tardi).

Il periodo predilige comunque l’evidenza dei forti contrasti, imbevuta com’è (sovente in modo acefalo) ogni posizione sul campo di ideologia a buon mercato. E anche un solo accenno – sempre di Koenig, sulle pagine di “Casabella” –, delinea bene come una “differenza” fra i due tragitti formativi esista eccome. Non potrà magari riferirsi direttamente e applicarsi personalmente agli individui (ovvero alle singolari esperienze dei fuoriusciti ISIA) ma diventa esprimibile – in particolare nel clima assai teso del ‘68 –, nei termini più generici e astratti di “diffidenza” nei confronti del mercato sulla scorta di un preconcetto “etico-ideologico” cui talvolta nemmeno Koenig e Spadolini sembrano immuni.
Nel suo editoriale del marzo 1968 Le ombre del tempio, Koenig invita a riflettere sul fatto che «nelle facoltà di architettura italiane si guarda oggi con estremo sospetto, se non con aperto disprezzo, all’industrial design». Un’errata equazione secondo la quale l’industria equivale al capitale rende legittimo considerare il designer alla stessa stregua di uno sciocco “servo del capitale”, ma questo non è che un abbaglio in quanto, come afferma sempre Koenig «la scuola migliore di design (...) esistente, quella di Ulm, si trova ad essere assassinata proprio dalle strutture capitalistiche che dovrebbero essere le tenere balie del design»[09].

[09] Giovanni Klaus Koenig, Le ombre del tempio, “Casabella”, 324, 1968.

Nonostante il diffuso pregiudizio appena espresso, sia per Bimbi che per Gioacchini è ben evidente fin dai loro primi lavori e progetti concorsuali, come l’orizzonte operativo sia segnato dal trinomio «qualità, quantità, basso costo» legato alle proposte di qualità democratica (arte + design) tipiche dell’esperienza Bauhaus, oltre che dalla peculiare attenzione al settore produttivo in cui «chi usa non compra» instillato dalle numerose esercitazioni su «oggetti di uso pubblico» (dal telefono a gettoni alle aree di sosta autostradali) svolte appunto all’ISIA sotto l’attento e vivo sguardo dei citati Koenig e Spadolini. Un orizzonte operativo che in Internotredici non stenterà a determinare reazioni, strategie ed epifanie in tutto paragonabili a quelle degli intellettuali “organici”, tanto testardamente tesi a coinvolgere e tessere in un medesimo ordito lavoro e territorio quanto a distinguere la propria attività dall’alveo decorativo “para-artistico” proprio del kitsch. E ciò proprio perché consapevoli del fatto che più che esprimere (per accumulazione e sovrapposizione) sé stessi occorreva innanzitutto capire cosa era in grado di esprimere il sistema in cui si operava e al quale si apparteneva. Sovente sorprendendosi a “levare” piuttosto che “gravare”, magari cercando pure di “frenare” l’intervento piuttosto che “accelerarlo”. Insistendo cioè nello “speculare” sul tema/argomento specifico il più a lungo possibile – e particolarmente in termini sia tipologico-strategici sia di bilanciato raffronto tra realtà imprenditoriali, istanze del mercato e personali velleità progettuali – prima di cominciare a «disegnare» alcunché e sentirsi legittimati a proporre soluzioni dedicate.

Un’attesa e un’inclinazione a “temporeggiare” che si sarebbe presto manifestata in atti concreti di umiltà operativa. Appena diplomati, una breve ma assai significativa stagione di concorsi vede Bimbi e Gioacchini partecipare – sia da soli che insieme a Paolo Romoli e Sandro Zani – a premi nazionali di rilievo dedicati al mobile. Tra l’altro ottenendo significativi riconoscimenti, ex æquo con esponenti di rilievo delle generazioni precedenti – ad es. Giotto Stoppino (1926) e Fabio Lenci (1935). Anche a uno sguardo superficiale, in queste prime prove l’intelligente utilizzo del filtro sintattico metaprogettuale di marca spadoliniana è più che evidente. All’VIII Concorso Nazionale del Mobile del 1968, il Mobile ed accessori da bagno in materiale plastico propone una radicale riorganizzazione degli spazi tracciando una sorta di nuovo “punto di vista” imperniato sulla creazione di una guida a muro (all’incirca eye-level) su cui, con un semplicissimo giunto a gravità, s’innestano elementi componibili. Una soluzione d’arredo che, oltre a tracciare un coerente fil rouge nell’opera futura di Gioacchini, manifesta anche come per Internotredici l’originalità di una proposta progettuale vada quasi sempre intesa come espressione della diade indissolubile di anticipazione e memoria – è infatti palese il debito della soluzione con analoghe prassi ordinative in uso presso le comunità Shaker.
Ulteriori premi (BIO 5 a Ljubljana nel 1973) sono riconosciuti alla lampada da tavolo in metallo Radar (la cui elaborazione progettuale risale al corso di Progettazione tenuto da Mario Maioli) entrata nel catalogo Guzzini fin dal 1967, mentre al IX Concorso Nazionale del Mobile della Fiera di Trieste del 1969 la Poltrona in poliuretano espanso ottiene il rimborso spese: un progetto forse sottovalutato che, se da un lato assimila la lezione di Pierre Paulin e Olivier Mourgue, d’altro canto anticipa ricerche ancora in fieri come la “struttura” ergonomica Ekstrem di Terje Ekstrøm i cui i primi prototipi risalgono al 1972, e proposte anche molto più recenti – la poltrona Polis progettata da Studio Batoni nel 2010 per Esedra by Prospettive di Monteriggioni - Siena, ne è infatti una evidente rielaborazione.

Nonostante queste eccellenti sortite concorsuali e produttive (sempre nato da un progetto seguito da Mario Maioli, il tavolo Haggard entrato in produzione nel ‘67 con Planuna è stato oggetto di attenzione da parte di Massimo Barbierato che, nel 2012, l’ha molto opportunamente – per lui – replicato con il tavolo/scrivania Jig Saw, selezionato da una giuria, forse non troppo attenta, della rivista “Domus” al concorso Autoprogettazione 2.0 ed esposto alla mostra The Future in the Making, a Palazzo Clerici, durante il Salone del Mobile di Milano), entrambi i futuri componenti di Internotredici sembrano piuttosto decisi a “raffreddare” gli entusiasmi che a esaltarli. Sul finire degli anni 60 decidono infatti – in un certo senso controcorrente sia rispetto ai loro “fratelli maggiori” sia rispetto alla scoppiettante vitalità fiorentina di fine decennio – di investire ancora un anno e alcuni mesi su un’attività gregaria ma consolidante sul piano professionale: collaborare con lo studio milanese di Nizzoli Associati.

Nel grande studio in cui rivestono ruoli non certo marginali, sia Bimbi che Gioacchini hanno modo di incontrare, tra gli altri, Alessando Mendini (che l’anno successivo, il 1970, diverrà direttore di “Casabella”) oltre a fare esperienza diretta con una professione forse fin troppo articolata rispetto a quella che affronteranno ritornati a Firenze. Il rientro accade poi in un momento molto particolare che costringerà sia Bimbi che Gioacchini a continuare per alcuni mesi a fare la spola fra Milano e Firenze cooperando con un’azienda da poco conosciuta – la Turri Giosuè e Figli di Bovisio – dimostratasi molto collaborativa e partecipe per un’elaborazione concorsuale (con tema Il laminato plastico nell’arredamento organizzato da A.B.E.T. - Anonima Braidese Estratti Tannici Print alla M.I.A. - Mostra Internazionale dell'Arredamento di Monza del 1969) assai più sperimentale e proiettiva che specificamente commerciale: la definizione di una sorta di progetto “manifesto”, un “mobile totale” – Tuttuno – che raccoglieva e rielaborava una serie di intuizioni sintattico-spaziali e ordinativo-semantiche apparse e applicate in particolare in territori limitrofi al furniture. Sebbene oggi appaia come un jolly calato in partita fin troppo presto (peraltro prodotto in edizione limitatissima in quanto sono solo 3 i prototipi “riconosciuti” dagli autori), Tuttuno costituirà l’occasione per entrambi di partecipare in prima persona al riconoscimento oltreoceanico tributato dagli USA al Made in Italy: la grande mostra presso il MoMa di New York del 1972, Italy. The new domestic landscape cui, su invito dello stesso Emilio Ambasz, curatore della mostra, Bimbi e Gioacchini hanno modo di partecipare come gruppo Internotredici insieme al loro ex docente ISIA Gianni Ferrara.

Quest’ultimo va forse considerato il vero “orditore” della creazione del team, sia prima della “trasferta” milanese – cercando d’incuriosire e attrarre Bimbi e Gioacchini sull’ipotesi di un futuro professionale insieme nel territorio toscano –, sia durante l’evolversi del rapporto con lo studio Nizzoli (disposto a quanto pare ad elevare il livello di responsabilità progettuali della collaborazione nonché ad offrire partnership associative) riuscendo a strappare ai due designer un’anticipata promessa di ritorno in regione quando ancora il loro futuro professionale non era definitivamente compromesso.
Oltre all’insegnamento presso l’ISIA, da tempo l’attività prevalente di Ferrara è quella di creatore di modelli, maquette di prodotto e plastici d’architettura. Come collaboratore di Michelucci è tra i pochi a poter affermare di aver assistito personalmente alle prime germinazioni e alle progressive elaborazioni – tramite l’indagine, la manipolazione e la verifica dell’analogon tridimensionale di cui era responsabile – del progetto della chiesa di San Giovanni Battista a Campi Bisenzio. Grazie anche a questa lezione – che s’imporrà nel gruppo come metodo di approccio anche tattile e manipolativo all’elaborazione creativa –, Ferrara entra in confidenza non solo con le più diverse materie utilizzate sul lavoro ma praticamente con tutto l’entourage progettuale locale. All’epoca infatti Ferrara – quasi una sorta di Giovanni Sacchi toscano –, è apprezzato coadiutore della maggior parte dei progettisti fiorentini, tra i quali, ovviamente, lo stesso Spadolini di cui Ferrara è quindi sia collega che collaboratore. L’età più matura e le conoscenze acquisite nel settore lo rendono pertanto una figura, oltre che rassicurante, di assoluto riferimento per due giovani decisi a operare come designer a Firenze.

Tornando alla mostra americana, va notato che la componente dimostrativa e autarchica di Tuttuno (per trovare modelli ispiratori dovremmo trasferirci di settore, ovvero guardare alla Minikitchen progettata da Joe Colombo, classe 1930, per Boffi nel 1963 e a, L’Autarca, il “tavolo contenente tutto il necessario per il servizio dei pasti” brevettato nel 1936 dal notaio genovese Angelo Fasce) risulta essere assai congeniale, per non dire perfettamente coerente, alla tonalità di fondo espressa complessivamente nello stesso exhibit design della mostra americana.
Gli enviroments di New York rappresentano infatti un «punto di rottura» anche con la tradizionale «presentazione visiva dello spazio abitato». Se, fino ad allora, la progettazione espositiva aveva «costantemente cercato di opporre la mediazione dello spazio alla presenza fortemente iconica che gli oggetti» assumevano se «isolati ed estrapolati dal loro contesto», in Italy. The new domestic landscape gli oggetti in mostra erano invece proposti «come immagini concluse in se stesse. Non ci sono più lo spazio e gli oggetti, ma oggetti-ambiente che esauriscono, nel loro proporsi come dimensione alternativa al design e all’architettura, la propria presenza». Gli allestimenti sono cioè «degli oggetti-messaggio, che “mettono in mostra” in primo luogo se stessi»[10].

[10] Dario Scodeller, Exhibition, anti-exhibition: su alcune questioni espositive del pop e radical design italiano, 1966-1981, “AIS/Design: Storia e ricerche” #3. Design Italiano: musei, mostre e archivi, 2013.

In qualità di oggetto-ambiente (ovvero di ambiente calato in un ambiente come Spadolini e Maioli avevano mostrato nella loro proposta per alloggio periferico alla XII Triennale di Milano del 1960), Tuttuno sembra però trarre le conseguenze logiche (o, meglio, i riflessi più significativamente teatrali) di sperimentazioni pluri-funzionali rivolte a settori contigui al living e in relazione assai prossima con la cultura materiale. Al di là della superficiale congruenza fra istanze progettuali e display comunicativo dell’evento, Tuttuno rimane pertanto espressione di una via operativa per molti versi alternativa a quella dell’avanguardia in quanto non intende affatto disconoscere la radice concreta e materiale dei fenomeni ai quali si applica la professione del designer.
Il sistema/programma di funzioni “a scomparsa” (una sorta di piccola “casa nella casa” ovvero macroscopico secrétaire per ambienti) ideato dal gruppo non si limita infatti a proporre soluzioni sbrigative, capziose o irritanti, non cerca a contrapporsi o a rimarcare una realtà problematica, non ne esalta i contrasti ma tende semmai a circoscriverla secondo una nuova punteggiatura: nuove regole operativamente efficaci commisurate ad una situazione data che non pretendono di fornire – né si “vincolano” a – plastiche rappresentazioni di dietrologie politiche.

Pare dunque plausibile ritenere che seguendo la tassonomia del design italiano che Emilio Ambasz stila nell’introduzione al catalogo [11] della mostra newyorkese – ripartendolo in “contestatari”, “conformisti” e “riformisti” –, Internotredici avverta intimamente di appartenere – insieme al più illustre Studio DDL - De Pas, D’Urbino, Lomazzi, al sopra nominato Joe Colombo, Bruno Munari, i fratelli Castiglioni, Marco Zanuso, Pio Manzù e pochi altri – alla categoria dei riformisti, ovvero di quei designer metici che, guidati da fiuto, curiosità e spiccate “intelligenze pratiche”, oltre a intrattenere rapporti fittissimi ed efficaci con la cultura materiale sono in buona parte, secondo la lettura datane da Branzi, anche gli eredi di una tradizione plurisecolare tutta italiana: quella della semplicità.

[11] Edito dalla fiorentina Centro Di.

Ma, ormai avviati gli anni ’70 e placatasi l’ebrezza più che comprensibile seguita al ritorno dagli USA a Firenze, l’altrettanto concreta questione della qualità e della quantità di relazioni che il gruppo può realisticamente condurre a buon fine con le aziende è un tema di qualche momento (per non dire decisivo) anche all’interno del team toscano. Dopo un quinquennio di crescita di attenzione e consensi tributati (è il caso, ad esempio, del Premio Speciale Bayer al Concorso del Mobile della Fiera di Trieste del 1970, il I e II Premio al Concorso Mobili in laminato plastico Abet-Print a Pesaro nel 1971 e il I premio al Concorso per la Progettazione di Oggetti in Alabastro di Volterra nel 1972), Internotredici ha modo d’interrogarsi su come portare a frutto le ormai riconosciute capacità critico-creative del gruppo. Sebbene non vi siano reali divergenze di opinione circa il senso del progetto, in Internotredici esistono tuttavia diversi punti di vista. In particolare sulla tipologia di committenza con cui rapportarsi anche a seguito del rilievo mediatico che, bene o male, ha coinvolto la compagine dopo il 1972.
Tra i due venticinquenni, forse nemmeno tanto consapevoli della rara occasione capitatagli, si palesano pertanto istanze divergenti. Nonostante l’intesa ideologica, l’approccio collegiale e una comune curiosità, Gioacchini non può condividere la passione e l’entusiasmo di Bimbi e Ferrara per un territorio che, almeno storicamente, non gli appartiene (ergo di cui non riesce a ritenersi responsabile) e che, tra l’altro, sembra manifestare assai contenute capacità e interessi ad assecondare le idee più proiettive del gruppo. E in una sintesi a posteriori non pare irragionevole sostenere che probabilmente proprio l’afflato per la Toscana, la ricerca di un coordinamento non posticcio (dunque oneroso in termini di energie) con il territorio al fine di porre coerentemente il «lavoro al centro», l’approccio dialogante, attento, perspicuo, volto a far emergere insieme al “fare prodotto” un senso complessivo e condiviso fra più soggetti interrelati, sia stato ad un tempo l’encomiabile peculiarità distintiva e il tallone d’Achille dell’avventura professionale di Internotredici.
Come ha ammesso lo stesso Carlo Bimbi, nonostante gli sforzi prodigati (ricerche, coordinamenti, strategie produttive attivate e perseguite nel tempo) per tutti gli anni 70 l’equipe avrà sì modo di collaborare con molte aziende interessate a nuove proposte di design, senza però riuscire a valorizzarle commercialmente in modo adeguato.

È il caso, ad esempio, del prodotto inserito attualmente nella collezione MuDeTo: il sistema trasformabile di imbottiti soggiorno/letto Quadrone che pur avendo suscitato un discreto interesse alla sua uscita, non ha però mai ottenuto il successo produttivo che ampiamente meritava.
Come accennato più sopra, il progetto va inserito in un contesto alquanto dinamico vieppiù complicato da più chiavi o livelli lettura plausibili che, integrati ad alcune illazioni, giustificate da semplici evidenze formali, pongono Quadrone su una linea sia di continuità che di opposizione con quanto si progettava e produceva in quegli stessi anni.
Non è, ad esempio, casuale che sul piano strettamente sintattico, al pari di coeve esperienze radical fiorentine di poco precedenti, il progetto di Internotredici appaia fortemente connesso ai dettami strutturali (o, più semplicemente, le linee guida) rilevabili dalla lezione progettuale spadoliniana.

Si è molto scritto circa i nessi esistenti tra l’opera di Leonardo Savioli [12] e l’avanguardia radical. Eppure nella fenomenologia di proposte delle giovani leve toscane che va dalla fine degli anni 60 a Quadrone, e, in particolare, nelle corrispondenze tra impianti solutivi adottati al fine di far emergere nuove proposte/interpretazioni/modalità fruitive del soggiorno “borghese” sembra esservi una sintonia molto più astratta di quella assai materica e “contestuale” tipica del lavoro di Savioli. Una sintonia le cui radici sono presumibilmente da reperire altrove rispetto all’assemblaggio di parti proposto per villa Bayon, alle cellule prefabbricate per la mostra La casa abitata o alle esercitazioni sul tema del Piper nel corso di Architettura e arredo degli interni tenuto appunto da Savioli presso l’Università fiorentina: esperienze tutte riconducibili più al prevalere di una voce (poetica e inimitabile se non a rischio di sovrapporvisi caricaturalmente) che ad un vera e propria grammatica del progetto (applicabile ovunque seppure in modo specificamente personale).

[12] Relatore di tesi dello stesso Adolfo Natalini.

Quel che sostanzialmente condividono il divano-puzzle Rumble di Pettena (1967), il divano-oasi Safari e la seduta informale Superonda di Archizoom (1967), il divano-astronave Bazaar e gli istogrammi architettonici di Superstudio (1969/70) – alla base prima dell’autoproduzione Misura (1969) e quindi della serie Quaderna (1970) – nonché lo stesso Quadrone altri non è che il trait d'union sintattico di Spadolini; ovvero la formata consapevolezza del ruolo centrale che la componibilità (e la scomponibilità) ha all’interno del “metodo” progettuale.

Gianni Pettena, Rumble - divano-puzzle, Poltronova, 1967 [x]

Archizoom Associati, Safari - divano-oasi, Poltronova, 1967 [x]

Archizoom Associati, Superonda - seduta informale, Poltronova, 1967 [x]

Superstudio, Bazaar - divano-astronave, Giovannetti, 1968 [x]

Superstudio, Istogrammi di architettura, 1969 [x]

Superstudio, Serie misura - mobili e oggetti in laminato plastico serigrafato, 1969-72, for PRINT | Poster illustrato con una serie di istogrammi e un fotomontaggio in bianco e nero. Sulla parte inferiore del foglio è stampato un testo esplicativo con la descrizione e le misure di ciascun mobile e oggetto illustrato (box alto, box basso, mobile bar, scaffale basso, scrivania, tavolo quadro grande, tavolo quadro piccolo, panca, tavolo basso, poltroncina, letto, tavoli sovrapponibili, e anche fioriere, specchi, oggeti, multipli...) | Edito in occasione dell’apertura della mostra tenutasi alla MPL Centro Informazioni, di Milano dall’11 al 29 febbraio 1972. Esemplare con firma autografa di Adolfo Natalini [x]

Superstudio, Quaderna - tavolo 126x126x72h, 1970, Zanotta [x]

Una matrice che, per restare nell’ambito tipologico, non pare condivisa, ad esempio, né dal divanetto Joe (di Studio DDL, 1970) né dal divano-letto Anfibio (di Alessandro Becchi, 1970) che – il primo ingigantendo una “protesi” protettiva, il secondo “flettendosi” come un corpo umano – recano ancora evidenti tratti dell’alveo tutto analogico di quella morfologia del “continuo” che è in grado di restituire oggetti con sì forti ed evidenti connotati ibridanti ma d’impronta prettamente unitaria e conclusiva – portato peraltro anche dell’alto tasso di artigianalità che entrambi gli oggetti intendono trasmettere e “preservare” (potremmo affermare col senno di poi romanticamente) all’interno del processo industriale.

Circa le relazioni esistenti tra il modus cogitandi dei gruppi radical (e di Internotredici) e l’opera (progettuale e intellettuale) di Pierluigi Spadolini si è probabilmente poco insistito anche in considerazione del fatto che se è vero che già fin dal 1966, Spadolini pubblica Componibilità come composizione ponendo in luce più di un nesso fra “iterazione” e originalità, fra regole metodologiche e azione concreta e specifica in relazione ad un contesto in-determinato e non determinabile a priori (così nel caso del prodotto di design come dei nuovi processi di produzione coinvolti dal trinomio: unificazione, industrializzazione, prefabbricazione), nondimeno a Firenze questi concetti e prassi sono noti almeno alcuni anni prima a chi ne abbia seguito con continuità e profitto le lezioni. Con ciò dando modo a molti architetti toscani, privi di una committenza reale di affrontare il progetto di design non tanto come un bene rifugio, cui ricorrere in ragione della penuria contingente di opportunità, bensì “orgogliosamente”, vivendo anche quest’arte “minore” come una sorta di “palestra” intellettuale di elaborazione e sperimentazione di un “metodo” in grado di cogliere nel reale quelle invarianti (emblematico in tal senso il Diedro presentato da Internotredici al Concorso del Mobile della Fiera di Trieste del 1970) che si riveleranno utili anche in vista del progetto architettonico a venire (e viceversa).

Non solo. L’ala protettiva (e proiettiva) di Spadolini va colta anche alla luce di quell’evento di assoluto rilievo nazionale che fu nel 1965 la mostra La casa abitata: biennale degli interni di cui già nel 1985 Giovanni Klaus Koenig si preoccupa di stilare una struggente riesumazione. Come osserva Koenig, «assieme a Michelucci ed a Tommaso Ferraris», Spadolini organizzò una mostra su quella che poteva sembrare un’ipotesi che rasentava la banalità: «mostrare ambienti – uno per architetto – perfettamente arredati nei dettagli (gli asciugamani nei bagni, le pentole in cucina, i pigiama nell’armadio, eccetera) come se fossero effettivamente vissuti. Ma a quei tempi, con l’attenzione tutta rivolta all’estetica del “pezzo” e non alla sua vita reale, era una cosa che si usava per nulla, nemmeno alle Triennali. Luigi Moretti ed Emilio Isotta presero alla lettera le indicazioni e si trasferirono per una settimana a Palazzo Strozzi, mostrando loro stessi al lavoro negli studi che avevano ricostruito, o costruito apposta, ma sempre pensando a loro stessi. Ricci, Savioli, Mangiarotti, Magistretti, Gregotti, Vittoria, Sottsass, i Castiglioni, Bassi e Michelucci, ciascuno con una propria invenzione tipologica e funzionale – che per descrivere occorrerebbe un libro apposta – mostrarono lo stretto legame fra design ed architettura degli interni. E forse perché per la prima volta potevano mostrare una scena casalinga tutta loro, come fossero stati scenografi di un film, dettero ognuno il meglio di sé». E tale convinzione è talmente radicata che immediatamente dopo Koenig dichiara di essere «certo che il pranzo dei Castiglioni, la camera dei ragazzi di Vittoria, la camera da letto di Sottsass, il tinello di Savioli, il bagno di Gregotti ed il pazzo soggiorno di Ricci (replicato all’Expo di Montreal) non solo abbiano rivoluzionato il modo di pensare all’arredamento e agli interni, ma abbiano anche segnato il punto più alto della loro produzione di designer-architetti»[13].

[13] Giovanni Klaus Koenig, Ragguagli sulla nascita di Pierluigi Spadolini designer, in AA.VV., Pierluigi Spadolini: architettura e sistema: otto opere in mostra ad Agliana, Dedalo, Bari 1985.

Ma, come accennato in precedenza, è forse plausibile retrodatare il contributo e l’influenza di Spadolini addirittura fino al 1960 ovvero alla sua partecipazione con Maioli alla XII Triennale di Milano. Nelle quasi “spettrali” pareti divisorie provviste di «maglie modulari a muro di boccole cui» possono «essere appesi mobili o attrezzature»[14] proposte in tale occasione per un alloggio periferico si può credibilmente rinvenire un’indubbia anticipazione del nitore reticolare degli istogrammi elaborati da Superstudio quasi un decennio più tardi. E tanto notevole è la considerazione e l’influenza attribuita a quest’ultimi nei confronti dell’immaginario collettivo del progetto degli anni 70 quanto appare misconosciuta la loro deriva da quell’«attacco» antidecorativo sfrerrato alla Triennale nei confronti della più tradizionale domesticità oltre che a gran parte dei progetti esposti «concentrati sul gusto e non sul rinnovo tipologico»[15].
E in questa riconoscibile capacità di Spadolini di sperimentare soluzioni “aperte” a partire da una lettura sistematica del tema in oggetto (apparentemente scevra da reconditi preconcetti formali) che si sforzava di ragionare sulle relazioni piuttosto che sull’aderenza o meno a standard e modelli preordinati o storicamente “acquisiti”, sta sicuramente un insegnamento che ha fatto breccia, nel corso del decennio, nella generazione a lui successiva [16].

[14] Mario Maioli, La produzione a Milano. Strumenti, metodi e processi del design degli anni 50 e 60, in Eleonora Trivellin (a cura di), La concretezza del progetto, Alinea, Firenze 2013.

[15] Giovanni Klaus Koenig (1985), Op. cit.

[16] Come detto, l’installazione proposta alla XII Triennale è peraltro contraddistinta dalla creazione di un «ambiente per l’allestimento dell’alloggio. In questo modo vengono creati degli interni secondari nell’interno più ampio che rimane percepibile». E di questa «creazione di interni nell’interno» si possono leggere gli effetti anche nella produzione «americana» di Internotredici.

Alla luce di quanto appena affermato (ovvero dato per acquisito il ruolo cerniera svolto da Spadolini sia nel comparto “contestatario” sia in quello “riformista” del giovane design toscano a cavallo tra i due decenni 60 e 70) non sembra più singolare rilevare come in un arco temporale abbastanza ristretto, soluzioni anche molto difformi dal punto di vista semantico presentino invece sotto il profilo sintattico notevoli congruenze divenendo persino confrontabili e apparentabili proprio a partire dal comune territorio formativo stabilito dal nesso composizione/componibilità condiviso dai più diversi giovani autori sopra citati.

Un confronto anche sommario fra il divano Rumble (in cui il box/cornice resta fisso, pur se altrimenti gestibile, al variare di posizione dei singoli elementi mobili), il divano Safari (che si compone additivamente sia in formazione a “cul-de-sac” che “aperta” giocando con un abaco ristretto a due soli elementi), la seduta Superonda (che da un unico taglio di un elemento inbottito di dimensioni poco superiori a quelle di un letto singolo offre una serie vastissima di utilizzi: letto, poltrona relax, divanetto, separé, ecc.), la serie di elementi/seduta aggregabili di Bazaar e la serie Quaderna (che fa del coordinamento a maglie reticolari una massima estetica forse anti-ergonomica e innaturale ma dall’impatto dirompente e in cui il letto appare come una sorta ricalco “coordinato” del divano Rumble) evidenzia come in tutte queste soluzioni sia possibile rinvenire parte del progetto Quadrone che non a caso potrebbe essere considerato una sublimazione (saturnina capacità di cui Bimbi dimostrerà anche più tardi d’essere eccellente interprete) avveduta e vigile delle più bizzarre proposte dell’avanguardia. Una sorta di mise en œuvre di una congerie di spunti interessanti ma spesso in conflitto sia con la preponderante visione imprenditoriale, sia col gusto medio domestico dell’epoca.

Sublimata mise en œuvre che, tra l’altro, si compie recuperando con acume quella sinergia tra anticipazione e memoria cui si è già accennato; e cioè: 1) reinterpretando nei termini espliciti di un semplice giunto articolare (dunque non più inteso prevalentemente come analogo “organico” ma, più discretamente con valore “binario” di on-off) il coup de théâtre dello schienale-bracciolo a scomparsa in parte desunto dalla “continuità” morfologica di Anfibio; 2) riscaldando la geliva coordinazione di Quaderna a contatto con la sobria tradizione moderna del barceloneta Day Bed di Mies Van Der Rohe e l’ancora viva cultura tessile locale – i rivestimenti sono realizzati su progetto di Graziella Guidotti, docente dal 1955 in Arte tessile ancora presso l’Istituto Statale d’Arte fiorentino; 3) riscattando la nozione di componibilità dall’aura un poco astratta in cui la lectio spadoliniana la viene disvelando al progetto. Nel privilegio attribuito dal progetto alle ragioni e ai saperi riferibili al tatto (incipit e telos del senso stesso del “fare”) Quadrone riesce infatti a proporsi credibilmente come una macroscopica eco domestica di quel talento musivo plurisecolare all’origine della creazione dell’Opificio delle Pietre Dure a Firenze.

Su quest’ultimo punto, occorre osservare che la traiettoria aperta dal contributo teorico di Spadolini si presta assai facilmente ad essere coinvolta nella «stagione del dissenso e della contestazione dei ruoli, dei linguaggi e degli strumenti delle disciplina»[17] in quanto nell’opera e nella scrittura del maestro fiorentino l’avanguardia può rinvenire una griglia strutturale di lettura/progetto del contesto sicuramente strumentale a più che una sola alternativa, utopica o meno che fosse. E, anzi, tale “strumentazione” si presta assai più immediatamente a dar luogo alla tabula rasa delle avanguardie che non al progetto dedicato di Internotredici.

[17] Gianni Pettena, Il mestiere dell’architetto, in AA. VV., Le risorse del progetto. L’esperienza di Pierluigi Spadolini architetto, TaeD Architettura, Firenze 2003.

Il contributo contenutistico della storia e quello espressivo dell’arte fanno ovviamente parte del contributo intellettivo ed emozionale che ogni designer può apportare al processo del design. Spadolini ritiene certo questo contributo individuale fondamentale e necessario per vivificare la fredda luce della logica progettuale, ma ciò non toglie che nel suo approccio alla materia questo apporto intervenga comunque ex-post, ovvero in seguito al rinvenimento delle invarianti (a-storiche e a-materiali) operato dalla preventiva disamina metodologica (meta-progettuale).
L’obiettivo di Spadolini (per certi aspetti simile a quello delle avanguardie) è peraltro riuscire a evadere dall’asfissiante nozione di “regola d’arte” che impedisce, specie nel settore edilizio, l’accesso di nuovi materiali e nuovi sistemi solutivi alle pratiche secolari proprie del settore.
Dunque lo stesso impianto teorico che soggiace a tale obiettivo è naturaliter più predisposto a dissigillare energie che a vigilarne e sorvergliarne gli esiti finali.

Sebbene nell’impianto teorico di Spadolini la definitività progettuale acquisisca un ruolo determinante proprio a confronto con la prassi progettuale artigianale (in cui il “progetto infinito” del fare s’interrompe solo quando l’artigiano decide che l’oggetto è finito), va detto che implicitamente la definitività del progetto industriale finisce con diventare contraltare dell’indefinizione specifica dell’oggetto cui si applica: indefinizione scaturita, appunto, dall’ispezione meta-progettuale del contesto operativo che proprio in quanto molto più definito e rigoroso strutturalmente lo diviene assai meno nei suoi connotati più specifici.
Ne deriva che, cercando di ordire un sistema/processo industriale in cui la qualità finale sia svincolata dalle incognite esecutive, la spoliazione del sistema valoriale specifico e stratificato nel tempo degli oggetti – come detto, implicita nell’ottica di Spadolini –, ha una conseguenza forse inaccettabile proprio per l’indole metica del gruppo Internotredici: l’azzeramento del tempo che l’esecuzione industriale pretende per sé e la conseguente espulsione della sorpresa cui fino all’ultimo può essere dato luogo nel progetto idealmente infinito di reminescenza artigianale.

E in termini squisitamente metici, le parti di Quadrone appaiono pensate sia come porzioni di una entità superiore (il letto) sia come elementi di per sé sensati e completi. Al contrario – come peraltro accadeva anche nel “brutalismo” aggregativo applicato al furniture domestico (il sistema Forex e la poltrona 59) elaborato da Maioli e Spadolini per la Triennale 1960 –, è assai più arduo leggere e apprezzare appieno gli elementi seriali di Quaderna senza visualizzarne mentalmente la filiera progettuale di cui sono l’esito specifico.
Quindi, in omaggio sia alla morfologia del “continuo” – che presiedeva le contemporanee prove di Alessandro Becchi e Studio DDL –, sia avvicinandosi alla generazione e agli interessi dello stesso Michelucci, Internotredici sembra vivere il portato spadoliniano assai più ambiguamente delle giovani leve dell’avanguardia. Finendo poi col porre al centro della propria filosofia di progetto, proprio quella “misura d’uomo” che radica il “fare prodotto” nella regione a regole e comportamenti fondati anche, se non soprattutto, sulla capacità di tenuta e di controllo di una diffusa molteplicità di operatori distribuita sul territorio piuttosto che delle sole capacità critico-intellettuali di un solo designer-demiurgo.

Fatte queste debite premesse e ribadita la grande diffusione ottenuta già nei primi anni ’70 dalla produzione design-grafico-architettonica dell’opera di Superstudio, non si può negare che alla sua uscita il prodotto Quadrone manifesti (a partire dalla strategia comunicativa elaborata oltre che dal nome ideato per il prodotto) una qualche relazione o perlomeno un consapevole confronto con l’ormai dilagante fascinazione reticolare – sistematica e a tratti inquietante – del «progetto universale» teorizzato dal gruppo – come detto, solo di poco più anziano ma assai più reputato internazionalmente.
Gruppo, occorre dire, tanto saldamente teorico quanto poco propenso a confrontarsi con le “polverose” alchimie decorative delle coeve realtà produttive, ma che, in particolare, aveva legato la propria esperienza sul campo alla stagione artistico-radicale nata e attiva in Toscana a cavallo dei due decenni 60-70, riuscendo peraltro a focalizzare le proprie tensioni intellettuali in una serie/sistema, forse la più emblematica, di un’ampia elaborazione teorica dai forti tratti utopici: l’autoprodotta serie Misura (1969) e il susseguente tavolo Quaderna (1970). Un prodotto rigoroso, formalmente sobrio e contenuto ma potentissimo per i suoi espliciti contenuti di additività.
Degno erede della tradizione sintattica del progetto plastico regionale, il sistema di tavoli, consolle, sedute e letti prodotto da Zanotta era la diretta gemmazione della serie di istogrammi di architettura dove, per gli autori, era compendiata una «via di razionalità e minimalismo» volta a conquistare «l’utopia di un mondo liberato e di una vita liberata dal lavoro, una “vita senza oggetti”». Obiettivo che equivaleva a «distruggere il sistema esistente per preparare le condizioni per l’instaurazione di un nuovo sistema libero dalle divisioni, dal colonialismo culturale, dalla violenza e dal consumismo»[18].

[18] Adolfo Natalini, Superstudio a Middelburg: dall’avanguardia alla resistenza, Edizioni dell’Arengario, Gussago - Brescia 2011.

Ma se, come accennato poc’anzi, al cospetto di Quaderna si ha netta l’impressione che la cogenza progettuale sia da reperire “a monte” – e, per così dire, anche “a dispetto” – del dato epifanico stesso (che di “liberatorio” restituisce assai poco), con Quadrone la questione degli spazi domestici viene affrontata proprio “a valle”, ovvero in media res adottando e facendo proprie tonalità assai più “mature” – pragmatiche e concrete – di quanto la levità della proposta di Internotredici non lasci sospettare di primo acchito.

Sicché, pur facendo egualmente parte di un disegno “ulteriore”: 1) le sedute di Internotredici risultano comunque sedute (ovvero accoglienti e informali – e non velatamente “punitive” come in Quaderna); 2) il piano imbottito del giaciglio è di gran lunga più comodo e “salutare” della quasi totalità dei prodotti concorrenti cui s’è prima accennato; 3) l’ordito astratto e ossessivo, che pare quasi intenzionato ad annientare e “lacerare” ogni possibilità di senso “locale”[19], pienamente avvertibile nell’isomorfismo superficiale di Quaderna, in Quadrone diviene concreta e suggestiva cucitura, scaturendo piuttosto l’epifania della più tradizionale trapunta (da cui attingere «quel senso casalingo della storia, per il quale il “particulare”» che si sente «al riparo da ogni universale rivolgimento, da ogni pericolo di natura pubblica, come d’ordinario si sente chi sta in casa propria»[20]) ovvero, come nel teatro, assumendone le sembianze senza tuttavia identificarvisi.
E tutto quel che in Quaderna si “spiega” facendo ricorso all’intenzionalità razionale degli autori in Quadrone viene invece acquisito come per osmosi, quasi senza mediazione: il senso ludico si associa al piacere corporeo, alla sensazione di libertà che pare sprigionare a fiotti dalle valenze aperte dagli elementi della partita.

[19] La posizione di Archigram, cui tutto il lavoro di Superstudio è ampiamente debitore, prevedeva necessariamente una sospensione del senso.

[20] Curzio Malaparte, Maledetti toscani, Vallecchi, Firenze 1956-1970.

Appare evidente che fra i due progetti vi sia una sorta di non casuale bensì ricercato gioco di specchi (teso tanto a riferirsi quanto a differenziarsi rispetto all’ubiquitario modello di Supertudio) oltre che una “critica” al prevalere del metodo rispetto alla maniera, come dimostra anche il côté comunicativo di Quadrone che sui pieghevoli aziendali propone scatti di un ironico dialogo fra prodotto e la medesima coppia “uomo+cane/scultura” adottata come elemento dialettico proprio nei disegni del catalogo degli istogrammi di Superstudio (1969/70) alla base della produzione di Zanotta.
Nè è altrimenti riconducibile il platealmente ironico “atterraggio” proposto nel poster di Quadrone realizzato dallo Studio Lovergine. Tutti gli elementi in gioco suggeriscono una lettura del progetto in quanto risultato di una eufemizzazione, una sorta di muta dichiarazione d’intenti da parte di Internotredici in favore dell’avvento di un’utopia dal “volto umano”, in grado cioè di far patteggiare ragione e bios, imponendo all’idea di “toccare terra” e, di conseguenza, farsi sollecita e disposta ad arricchirsi e persino a contraddirsi, fino ad accogliere – morbidamente e senza preconcetti – l’incognita racchiusa nella confidente relazione tra artefatto e agire umano.

Detto ciò, si spiega forse anche meglio come mai, nonostante i debiti palesati con l’opera di Superstudio, il referente più proprio per comprendere e chiarire il ruolo di Quadrone nei confronti della coeva temperie culturale, sia l’opera dello Studio DDL - De Pas, D’Urbino e Lomazzi. E proprio dal punto di vista del senso degli oggetti – di quel che gravita al fondo delle scelte di progetto – appare plausibile che sia Internotredici che Studio DDL intendessero gli artefatti che progettavano non tanto come “testi” (secondo l’interpretazione avanzata dagli studi semiotici) quanto piuttosto come “estensioni” del corpo, ovvero in quanto «mezzi che vengono impegati per interagire con il mondo e, per usare un termine caro ad André Leroi-Gournhan, per venire a patti con la materia»[21].
Appare cioé plausibile rilevare che per entrambi i team di progetto (Internotredici e Studio DDL) gli oggetti siano irriducibili «ai soli aspetti semiotici e linguistici in quanto è possibile rintracciare nelle funzioni degli oggetti, nell’uso che ne viene fatto e nelle relazioni che si stabiliscono con le persone anche la preminenza di un linguaggio non verbale – la manualità, il saper disporre, l’odorato, il tatto, sensi che richiamano un rapporto con gli oggetti che non ricade sotto il dominio della linguistica. Si tratta di un invito a rivalutare la concreta natura degli oggetti, il loro essere strumenti, il loro essere incorporati nelle pratiche quotidiane di uso, fino a trasformare gli oggetti in estensioni del corpo che supportano e amplificano le azioni umane»[22].

[21] Pietro Meloni, La cultura materiale nella sfera domestica, in Silvia Bernardi, Fabio Dei, Pietro Meloni (a cura di), La materia del quotidiano. Per un’antropologia degli oggetti ordinari, Pacini Editore, 2011.

[22] Pietro Meloni, Op. cit.

Sebbene con Quadrone dispositio ed inventio ricalchino perfettamente i ruoli e le relazioni della retorica classica (è in fondo nella consapevolezza dell’inalienabile potere di quest’ultima che si sostanzia la “critica” al prevalere del metodo rispetto alla maniera), va sottolineato che la kinesis, ovvero la componente cinetica del progetto, pone altrettanto in evidenza il gioco rilevantissimo che il progetto concede e consente alla diade imponderabile di corpo e teatro. Per cui in Quadrone abbiamo anche una sorta di evoluzione della stessa nozione di venire a patti con la materia in quanto qui materia è l’ambiente stesso nel suo complesso e la presenza fisica dell’attore (il corpo) si nutre e si confronta con lo spazio rappresentativo (il teatro) quasi impedendone una qualsiasi interpretazione semplificata e precostituita dagli stessi artefici.

Progettato “al contrario” rispetto all’area tipologica di riferimento (anche se Quadrone è propriamente “altro” rispetto ai concorrenti divani-letto), il sistema trasformista di Internotredici sembra pensato “a partire” dal letto. Nel sillogismo progettuale di Internotredici, infatti, la volumetria complessiva – costituita dall’oggetto dimensionalmente più consistente (il letto matrimoniale) – assume i connotati del dato di partenza, mentre il doppio sofà (o il sofà abbinato a due poltrone) ne rappresenta la conseguenza progettuale.
Rispetto allo standard elaborativo consolidato, la mossa di Quadrone equivale dunque ad una abduzione/retroduzione (dato il letto se ne ipotizzano gli antefatti esplicativi, ovvero le sedute) rispetto alla più generale prassi progettuale deduttiva. Pertanto la scaturigine creativa trainante non si enuclea e concentra tanto nel contrarre spazio occupato da oggetti d’arredo mutandone la funzione, ma si avvale piuttosto di una via ulteriore: quella cioè di scomporre il dato/oggetto di partenza ridefinendone teatralmente sorti, ruoli e finzioni.
Nel passaggio da contrazione a scomposizione è pertanto implicito un salto qualitativo notevole del “fare progetto”, in quanto dall’avveduta disarticolazione del prodotto ibrido si passa decisamente alla scenografia, alla (potenziale) riscrittura degli ambienti, al letterario ridisegno delle trame domestiche poste a confronto con l’occasione.

E a proposito di letteratura e di procedimenti abduttivi, come nel racconto di Edgar Allan Poe, La lettera rubata, il progetto di Internotredici dimostra che il modo migliore per “occultare” qualcosa (il letto) è mimetizzarla con altre simili (il sofà, le poltrone pensati come facenti parte di un medesimo ambito). Con Quadrone, Internotredici non nasconde il letto letteralmente all’interno della seduta di un divano, bensì piuttosto lo mantiene assai bene in vista, sebbene teatralmente travestito come un puzzle bifronte in due/tre elementi di un confortevole soggiorno.
In tal modo nel progetto di Internotredici il contesto ambientale in cui il letto è inserito viene piuttosto altrimenti raccontato. Il letto non viene cioè occultato in modo letterale bensì dissimulato per via letteraria, tramite un’ulteriore ri-elaborazione ermeneuitico/narrativa delle parti in gioco.

Una narrazione scenografica che appare tuttora sorprendente anche perché l’industria del mobile non sembra affatto aver compreso, sviluppato né valorizzato l’alternatività implicita nell’eleganza solutiva di Quadrone. Eleganza non sufficientemente valutata in particolare per le valenze aperte dal sistema per una tipologia ibrida ormai avviata al consolidamento sul mercato (il divano-letto è tra le poche tipologie ibride domestiche corservatesi nel tempo) e che – proprio per non aver affatto sfruttato il materiale elaborato a suo tempo da Internotredici – ha perduto l’occasione di praticare una via di progetto alternativa al tema, irrigidendo l’offerta su un’unica modalità (dominante) e alcune sporadiche “mosse” alternative – sondate in particolare da Campeggi in anni assai più recenti.

Quadrone rappresenta quindi sia lo sforzo di mediazione più alto e compiuto di una serie di tensioni intellettuali rivolte al tema del soggiorno/letto sia un atto mancato, una miope distrazione del mercato che ha finito col determinare una riduzione di complessità dell’offerta garantita dal settore produttivo al tema antico e sempre più diffuso e “ridotto”, specie in ambito metropolitano, degli alloggi contemporanei.

Viene pertanto da domandarsi: come mai la via del “letto rubato” non è divenuta norma e come mai, negli anni seguenti, non ci sono state riprese, evoluzioni, approfondimenti dell’orginale intuizione progettuale di Internotredici? La via indicata con Quadrone aveva infatti tutte le carte in regola per essere considerata, a partire dalla seconda parte negli anni 70, la via solutiva standard perfettamente speculare (e reputata ancorché considerata più “economica” e “giovane”) a quella del “letto nascosto”.
Ma tutto ciò non è accaduto e rinvenire le tracce dei motivi che hanno influito maggiormente su questa mancata occasione, non è certamente facile. Una convinta produzione avrebbe senz’altro riscontrato l’interesse che il sistema sotteso al prodotto meritava portando, di conseguenza, anche la concorrenza ad occuparsene, dando modo alla produzione furniture nel suo complesso di evolverne i concetti base fino a emendare il peccato originale al fondo dell’idea stessa: la critica, ancorché moderata, al “salotto borghese”.

Sebbene gli autori si siano ben guardati dal manifestare apertamente tale critica, appare evidente anche oggi che Quadrone espandeva l’ambito stesso dell’ibridazione da una questione fra oggetti (il divano, il letto) ad un confronto fra ambiti spaziali (il soggiorno, la zona notte). Con ciò sferrando implicitamente un attacco (non a caso recitano brochure e manifesti aziendali del prodotto «il Quadrone conquista il tuo spazio giorno e notte») al senso di separatezza creatosi nel tempo tra i due ambienti domestici e assai radicato in una popolazione da poco uscita dagli effetti del boom economico, ma perlopiù ancora rigidamente “contadina” nell’interpretazione dei nuovi spazi che il benessere economico man mano gli concedeva.

Per molti anni del dopoguerra il salotto/soggiorno sarà uno spazio ad utilizzo «intermittente; elemento rilevante più a livello rappresentativo/culturale – quasi uno status symbol – che a livello pratico». Per una consistente porzione di inurbati «si trattava di uno spazio vissuto assai più mentalmente che non realmente: ci doveva essere, ma era un ambiente nel quale si era più “esposti” che in intimità con gli altri. E con tale tonalità predominante ha svolto le proprie funzioni»[23].
Anzi, esattamente a quarant’anni di distanza dalla prima uscita di Quadrone, lo spot di Divani&Divani ideato per la campagna 2014 (in cui l’azienda propone un’assicurazione per convincere l’utenza a “godersi” finalmente il divano utilizzandolo) sembra ammettere la sopravvivenza di questa versione “tutelata” di uno degli oggetti domestici più emblematici del comfort e del relax abitativo-esistenziale (ovvero proprio del piacere che deriva dall’uso e dalla reazione intima e corporea con l’oggetto stesso). Non sarà oggi maggioritaria ma il suo permanere ne dimostra sicuramente l’antica consistenza.

[23] Sergio Giobbi, Del design cinetico e poetico, in Umberto Rovelli (a cura di), Op. cit.

Chiedersi se Quadrone possa essere considerato o meno un progetto giusto o “definitivo” per l’epoca nella quale venne progettato – non è pertanto molto diverso dal chiedersi se lo sia anche oggi. Il progetto di Internotredici – come detto rimasto un unicum creativo mai più rielaborato da alcuno in oltre 40 anni – appare infatti anche oggi del tutto inusitato.
Ma se la sorpresa di allora, può trovare qualche plausibile giustificazione, al contrario riesce davvero difficile capacitarsi del fatto che un prodotto anche vagamente simile a Quadrone non sia oggi in produzione, magari distribuito e commercializzato proprio da chi sembra ormai aver raccolto, nel bene o nel male, l’eredità del trinomio bauhausiano di «qualità, quantità, basso costo»: IKEA.

Le ragioni del passato non possono infatti essere più addotte nel contesto contemporaneo. Forse negli anni 70 Quadrone costituiva un progetto con ampie valenze cui però il mercato del tempo non era in grado di dar seguito. Prodotto di fascia medio-alta, Quadrone non era probabilmente abbastanza economico per incontrare un’ampia convergenza con il ceto medio – che dal suo acquisto poteva “tesaurizzare” una stanza in più per il figlio ormai cresciuto. Per converso il pur ludico sistema soggiorno/camera da letto ideato da Internotredici era forse fin troppo vigilato nella sua misurata e controllata verve espressiva per l’alta borghesia milanese, tanto disposta a investire sulle sorprendenti levate d’ingegno fuoriuscite dal mondo del design quanto desiderosa di stupirsi a fronte di idee pionieristiche ed estreme, curiose al limite del bizzarro e sovente legate alla sperimentazione di nuovi materiali (emergenti o pop) ovvero con un corollario di “effetti speciali” che il sobrio Quadrone non evidenziava affatto in grado di alla sua prima uscita, tutto compreso com’era a eufemizzare la propria originalità e a dissimularne gli aspetti più aggressivi.

Detto ciò, possiamo comunque rilevare che con questo progetto il soggiorno, da ambiente “reliquia”, segregato in una rigida ufficialità, si trasformasse manifestamente in “territorio di conquista” proprio per quelle generazioni che non avevano accesso al mercato. E, d’altra parte, perché concedere al figlio cresciuto una stanza da letto (luogo della sua più disdicevole privacy) proprio laddove la famiglia cercava di proporsi al mondo col suo volto più impeccabile?
Il cortocircuito simbolico e sociale era evidentissimo. E se ne accorse quasi immediatamente l’ottima Bardi di Quarrata che, una volta realizzati gli eleganti prototipi, si precipitò a creare un brand nuovo di zecca – Bardidue – pur di evitare di porre a confronto, sul medesimo catalogo, la propria produzione di classici e “scorniciati” e il sistema giorno/notte di Internotredici.

Come è sempre accaduto, e ancora oggi accade, i progetti vivono ed evolvono se in essi si concentra la fiducia convergente di progettisti, aziende e, naturalmente, di pubblico e mercato. Fin dalla prima presentazione settembrina al Salone del Mobile di Milano 1974, si evidenzia per Quadrone una “prateria” di corollari non del tutto svolti a corredo del teorema rappresentato dall’idea base del progetto originale.
Già sulle prime brochure (grafica di Studio Lovergine e fotografie di Tam Fagiuoli) si viene informati che per il sistema trasformista vengono «forniti, a richiesta, gli speciali lenzuoli con elastico, appositamente studiati».
Di qui a ipotizzarne varianti il passo è breve. A mò d’esempio segnaliamo solo alcuni degli “scenari” evolutivi perfettamente compatibili col progetto e mai sondati, come detto, da alcuno: a) l’utilizzo di nuovi tessuti e materiali; b) una graduale e crescente sofisticazione tecnologica (con dotazione di remote control) del pur efficace giunto manuale adottato da Internotredici nella prima versione; c) una rivisitazione della stessa struttura in senso contenitivo per garantire una totale autonomia di servizio al soggiorno/zona letto (reperendo cioè spazi nella stessa struttura per cuscini e lenzuoli); d) uno studio ulteriore volto a stabilizzare l’assemblaggio (ad esempio con passanti e cinghie avvolgenti “a cintura” gli elementi da congiungere come accade nel sistema espositivo modulare Ombelico, elaborato da Marc Sadler per Alu nel 2008); e) l’incremento della “accessoriabilità” del sistema (ad es. sondando possibilità d'integrazione fra versione letto e piani di appoggio, a scomparsa o con ganci a gravità).
Come si può notare c’è materiale a sufficienza per stilare un vero e proprio brief di progetto autonomo. Magari addirittura un concorso per giovani laureati disposti a cimentarsi non tanto su “nuove” proposte (che poi come nel caso organizzato da “Domus” si rivelano assai meno “originali” di quanto sperato) quanto sulla ri-progettazione e re-visione [24] di articoli geniali ma oggi fuori mercato. Rivederne le origini e studiarne i possibili adattamenti sarebbe un’ottima occasione per riportare alla luce trascorsi poco noti ai più e un ottimo esercizio di confronto, oltre che col passato, con la concretezza e la specificità del progetto; confronto che sovente manca al mondo formativo attuale. E nemmeno crediamo che gli stessi Bimbi e Giocchini sarebbero contrari all’idea di un contest dedicato a definire e plasmare una sorta di Quadrone 2.0, magari sovrinteso e diretto da loro stessi, sotto l’auspice egida di un’importante azienda design oriented. Eppure tutto ciò non è accaduto e non accade.

[24] Come nota James Hillman, «la sillaba chiave della cultura è il prefisso RI». James Hillman, Trame perdute, Raffaello Cortina, 1985.

Cosa dunque è a mancato (e tuttora manca) per decretare il successo di Quadrone? A questa domanda è possibile dare forse più di una sola risposta, ma la più franca e onesta sembra quella già espressa a suo tempo dallo stesso Bimbi: ovvero che Quadrone costituisce un esempio di scuola di palese discrasia fra culture nel territorio: quella del progetto e quella aziendale.
«L’arrivo di Quadrone doveva lanciare la collezione moderna della ditta ma, nonostante le buone intenzioni, quel prodotto rimase un caso isolato, compromettendo così l’immagine e la fortuna del prodotto stesso. Alcuni anni più tardi un tecnico di Zanotta, tenendo una lezione agli studenti di Gianni Ferrara all’ISIA di Firenze, gli raccontò che la ditta milanese aveva preso contatti con Bardi per rilevare il progetto, che nel frattempo era stato ampiamente pubblicato e recensito nelle riviste di settore. I titolari dell’azienda toscana avevano però rifiutato quella proposta, determinando così il mancato decollo commerciale del progetto. Diciamo che la Toscana è anche questo: un grande impegno nella realizzazione dei prodotti, e uno scarso credito nei confronti della loro comunicazione commerciale»[25].

[25] Carlo Bimbi, Op. cit.

Come detto non si ritiene affatto che la via dell’alta gamma fosse (e sia) l’unica aperta a questo prodotto veramente unico per eleganza e intelligenza pratica. Occorre però ammettere che a fronte dello sconfortante disinteresse dimostrato dalla grande distribuzione per una proposta che sembra concepita oggi, un repêchage di Quadrone da parte dell’élite imprenditoriale pare forse l’unica chance rimasta sul campo affinché un grande progetto incontrando finalmente un partner adeguato possa tornare ad essere a disposizione di chiunque lo desideri (o l’abbia anche solo desiderato 40 anni or sono).

Post Scriptum: novembre 2018

Come raramente accade, la realtà si compiace talvolta di conformarsi agli aneliti e alle attese di chi scrive. Se sicuramente è troppo pretendere d'aver ispirato con la forza delle sole parole un'impresa oggi certo non facile, nondimeno resta da segnalare la singolare concatenazione cronologica avvenuta negli anni intercorsi fra l'acquisizione virtuale di Quadrone presso MuDeTo (marzo 2015) e la fine del 2018. Nel breve volgere di alcuni mesi, con la fine dell'ingeneroso tributo di oblio assicurato fino allora al Quadrone abbiamo assitito sempre più trepidamente al progressivo avviarsi di una sua nuova, quasi insperata, stagione produttiva all'insegna della più totale continuità. Una riedizione tutta toscana che ha inteso persino riscattare la parziale delusione produttiva del passato imputabile, secondo gli stessi artefici, a una sorta “anticipo sui tempi” che Quadrone nel pieno degli anni 70, di fatto, incarnava [26].

[26] Come la designer del tessuto Graziella Guidotti ha infatti di recente affermato in una intervista rilasciata a Claudia Rumi: «Purtroppo quando nacque [Quadrone] aveva una forma per allora troppo dirompente, nuova, all'avanguardia, certamente di difficile comprensione per una clientela abituata a un gusto borghese, se non anche di stampo ancora ottocentesco» (Claudia Rumi, Voglio un quadro, anzi un... “Quadrone”!, 25 novembre 2018, FoodMoodMag.it | www.foodmoodmag.it/read/focus-design-voglio-un-quadro-anzi-un-quadrone).

Presentato a Firenze in occasione dell'inaugurazione del nuovo concept store Bardi Italy, dal novembre 2018 Quadrone è rientrato nel catalogo ufficiale dell'azienda quarratina con l'intenzione dichiarata – come ha affermato il patron di Bardi Italy, Massimo Bardi – di «intercettare un price point tale da renderlo fruibile da un largo pubblico, affinché rientri nelle case degli italiani e non solo, confermandosi, in tutto e per tutto, un arredo intramontabile»[27]. Vale a dire dimostrando di aver perfettamente compreso quanto più sopra accennato a proposito dell'attività di Intenotredici, il cui «orizzonte operativo» è sempre rimasto «segnato dal trinomio “qualità, quantità, basso costo”».

[27] Claudia Rumi, Op. cit.

Infine, per concludere, mi sia consentito citare integralmente quanto riportato nella sottostante sezione “Testimonianze” in replica al quesito: cosa si dovrebbe pretendere oggi da una riedizione di Quadrone?

«In primo luogo l’averne compreso la più che evidente compatibilità con l’attuale temperie culturale, apparentemente attenta e sensibile nei riguardi di ogni proposta tesa a riconsiderare valorialmente prodotti vintage. In seconda battuta la consapevolezza che gran parte del valore di quei prodotti non risiede né in fortuite coincidenze né in gratuiti mix d’improvvisazione tecnologica e rivoluzionaria genialità performativa: c’è piuttosto cura, serio studio spaziale, professionale pazienza, tattile meditazione, vigile ascolto e avveduta considerazione dei vari step operativi impliciti nel “fare prodotto”. In terza istanza la constatazione che il ricorso alla storia del design non può ammettere che un’unica sentenza: un reale processo di riqualificazione dell’odierna produzione industriale prevede e pretende, esattamente come ieri, il ripristino dell’eccellenza in ogni ambito della filiera, in ogni ganglo della rete tramite la quale il “fare prodotto” si nutre e vive: formazione (ivi compresi stage ed esperienze concorsuali); cultura del progetto; maturata esperienza sui materiali; prudenziale aggiornamento tecnologico; riflessiva ricerca e sperimentazione; pertinenza comunicativa; competenza distributiva.

«La riconquista del terreno perduto in questi oltre 40 anni non sarà facile, ma la lezione di Quadrone non può e non deve essere smentita: l’eccellenza di prodotto [come di ogni prodotto eccellente] non è che l’epitome, il distillato di risulta di una galassia senziente e operativa i cui pregi e le cui doti restano sovente “dietro le quinte” e solo raramente vengono intesi come elementi attivi del sistema di pratiche in cui si trova inserito un prodotto. Non per caso, buona parte di tale galassia prende il nome fuorviante di “indotto” solo perché il senso di lettura (le lenti con cui si osserva il sistema) s’avvia a partire dal prodotto finito e non, viceversa, in quanto processo sorgivo – prospettiva dalla quale risulterebbe folle concepire l’emersione della qualità e dell’eccellenza produttiva scissa dal’energia promanante dal sottobosco d’industrie e artigiani di subfornitura che coopera con l’imprenditoria terminale.

«Il prodotto di qualità è pertanto il frutto – intrecciato e coordinato ad arte – di una rete di ulteriori eccellenze individuali e collettive di figure professionali e di micro imprese il cui sostegno e mantenimento ha sempre e comunque rappresentato un elevato costo economico, sociale e imprenditoriale. Scorciatoie che rifuggano tale regola aurea, applicabile praticamente a una qualunque filiera produttiva di qualità, non esistono né paiono auspicabili.

«Se, come è lecito supporre, proprio questo è il percorso intrapreso da Bardi con l’insperata quanto auspicatissima reprise tipologico-spaziale di Quadrone, non c’è che da ringraziare Massimo Bardi per aver optato di riproporre oggi, pressoché tal quale, un progetto così sottilmente innovatore da provocare ancora oggi stupore e sorpresa in chi vi si approssimi per la prima volta. Così come bisogna esser grati a Carlo Bimbi e Nilo Gioacchini per aver continuato a promuoversi non solo in quanto prefiguratori di mondi a venire, ma anche come orgogliosi custodi di un passato degno d’essere ricordato, onorato e – perché no? magari tramite concorsi – evoluto in senso incrementale dalle attuali promesse del design di domani»[28].

[28] Umberto Rovelli, Quadrone: un'auspicata riedizione dopo oltre 40 anni, in Quadrone - Testimonianze, MuDeTo.it.

Carlo Bimbi (Volterra - Pisa 1944)




Con Gianni Ferrara si tornava verso Firenze da una trasferta a Sinalunga e il solito ottimo pranzo all’Amorosa.
Erano i primi mesi del 1974 e l’amico Adriano Piazzesi, che già lavorava per «Bardi» di Quarrata, ci aveva da poco invitato a disegnare qualcosa per quella stessa ditta.
Come tipico dell’ambiente, i prodotti Bardi erano divani e poltrone in stile quarratino: intendo cioè oggetti fortemente decorati, con intagli in legno e imbottiture trapuntate, di destinazione borghese e di gusto tradizionale.
Avevamo in progetto, io e Gianni, di lavorare ad un divano trasformabile in letto.
La progettazione avveniva così: lunghe chiacchierate, obiezioni e contraddittori, riferimenti a quanto ciascuno riteneva migliore; magari volava anche qualche offesa che immediatamente rientrava grazie alla disponibilità di ciascuno di noi a procedere verso la realizzazione del prodotto, piuttosto che a sostenere idee e/o ideologie per le quali non avevamo né interesse, né cultura, né carattere.
Verso Arezzo cominciammo a vedere la possibilità di una forma che assomigliasse all’incastro di due pettini ruotanti uno dentro l’altro in modo da formare un piano o un angolo.
Nei giorni successivi il lavoro andò avanti all’interno dello studio.
Si sviluppò e si definirono in maniera molto semplice i meccanismi che consentono la trasformabilità da divano a letto e viceversa. Nacque così il Quadrone.
I Bardi lo accolsero con grande soddisfazione e addirittura, rendendosi conto di quanto non fosse allineato con la produzione esistente, decisero di dar vita ad un nuovo marchio, «Bardidue», con una vocazione più moderna e di design.
Contattammo anche l’agenzia di rappresentanza «Archema», che si occupò della distribuzione.
Per dare più valore all’oggetto, incaricammo della progettazione di tessuti Graziella Guidotti e per il catalogo e la comunicazione Mario Lovergine, che si servì delle fotografie di Tam Fagiuoli.
Grande fu la soddisfazione di vedere esposto il Quadrone in una delle vetrine storiche dell’arredamento fiorentino, «Interform» di via Lamarmora, degli amici Ida e Mario Bonacchi.

Titolo / Title:

Quadrone

Autore / Author:

Carlo Bimbi

Luogo / Place:

Firenze

Data / Date:

10 febbraio 2015

Umberto Rovelli




Ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare Carlo Bimbi nei primi anni di questo secolo, risale invece a pochi anni più tardi l’amicizia con Nilo Gioacchini. Per entrambi, la mia iniziale curiosità nei confronti della loro attività, era stata perlopiù innescata dai progetti ammirati in occasione delle annuali fiere milanesi cui partecipavano con successo come autori affermati negli anni della loro piena maturità.

Peraltro, all’epoca di quei nostri primi incontri, la mia conoscenza del “disegno industriale” era alquanto approssimativa, ma soprattutto intravedevo appena la stratificata relazione esistente fra le attività svolte in Toscana e il furniture design. Indottrinato al recente culto delle archistar – spesso votate ad affrontare il progetto industriale più istrionicamente che con paziente maestria –, potevo cogliere solo la superficie del mare magnum che, dopo alcuni anni dedicati a sostenere il progetto cultural-editoriale MuDeTo, sta gradualmente emergendo ai miei occhi come un forziere gremito di opere, figure e imprese lasciate ingiustamente in disparte [01].

[01] Molti eccellenti reperti afferenti al nostro territorio esibiscono connotati misurati, pacati e silenziosi, appena increspati da asciutte modalità espressive, rasentando con l’elegante semplicità decorativa dei loro profili, l’anonimato più “costoso” in termini di popolarità mediatica: quello, cioè, che le riviste di settore raramente sanno cogliere e propalare in quanto “modello” o, ancora più propriamente, come “caso di scuola”: quella toscana, appunto.

Pur essendomi documentato poco più che superficialmente sul passato di Carlo, ero però rimasto impressionato dalla freschezza dei decisivi episodi risalenti della sua giovinezza professionale, di quella del “complice” Nilo e del loro più anziano sodale Gianni Ferrara: in altri termini, gli eccellenti prodotti della pur breve parabola progettuale di Internotredici. Impressione che valeva, e vale tuttora, in particolare proprio per il sistema imbottito trasformabile soggiorno|letto Quadrone. Un prodotto la cui rara attitudine risiedeva, e risiede tuttora, nel trasformare d’emblée la natura fruitiva d’un intero ambiente.

Già una quindicina d’anni orsono quel che più m’impressionava di Quadrone era la brevità della sua stagione produttiva, il fatto cioè che un progetto così ben congegnato e intonato anche alle più attuali esigenze spazio-funzionali non fosse riuscito a mantere una decorosa permanenza sul mercato. Considerato in astratto, dalla pur limitata fruizione dei disegni e delle foto d’epoca, il “magico” meccanismo di trasformazione di Quadrone mi appariva sobrio, rigoroso ed efficacissimo, anche perché la metamorfosi spaziale era ottenuta con fulminea rapidità e naturalezza, col semplice ausilio di una cerniera.

Pur appartenendo a una stagione molto discutibile sotto il profilo del consenso mercantile e popolare, il progetto “riformista” sotteso a Quadrone – guidato da fiuto, curiosità e spiccate “intelligenze pratiche” –, non aveva però proprio nulla di gratuito e supponente: non si trattava affatto di un concept ma di un prodotto vero, perfettamente risolto nelle sue parti. Di più. Quadrone era in primo luogo un progetto autenticamente concertatore di quanto, pur già presente, non era ancora stato ordito: nel suo palesarsi come anticipazione c’era quindi implicito l’omaggio a una memoria comune; una deriva condivisa fondata sulla diade dialettica di lavoro e territorio.

Giudicarlo e comprenderne la reale consistenza, raccontarlo e onorarne il valore storico comportava quindi un onere accessorio: tentarne, senza purtroppo riuscire materialmente a toccarlo, una disarticolata lettura per parti, cercando di far meglio emergere i diversi contributi professionali occorsi nel processo ideativo-realizzativo. E ciò non tanto per sminuire il ruolo aziendale o dei progettisti. Al contrario, per meglio sottolineare la tonalità rilevante dell’apporto di entrambi: l’inclinazione all’ascolto, l’attitudine ad assorbire, la predisposizione a ricevere e abilmente concertare le diverse competenze offerte dal territorio facendole cooperare fruttuosamente nel processo produttivo di un’opera capace di durare nel tempo, almeno come intensità reminescente.

Pur non avendo avuto una fortuna produttiva adeguata ai suoi meriti, il ricordo vivo di Quadrone aveva comunque potuto resistere alla damnatio memoriae cui ben pochi artefatti sono effettivamente in grado di sfuggire. La mia stessa reazione di sorpresa (per quel che vale ovviamente) per la mancata presenza sul mercato di proposte assimilabili al bel progetto di Internotredici, era il segnale di una persistenza d’interesse che superava ampiamente l’occasionalità e il fortuito “caso”.

A distanza di, a dir poco, una generazione, la metamorfica capacità arredativa di Quadrone non stupiva affatto esclusivamente per la sua ingegnosità: la qualità degli imbottiti trasformabili di Bardi era infatti anche decisamente funzione diretta del valore apicale delle molteplici professionalità che il prodotto incorporava in sé. In primo luogo, come detto, il talento dei due giovani designer, ma non solo. Anch’esso (il talento) poteva essere d’altronde valutato in termini sistemici e di deriva, ovvero, almeno in parte, in quanto, promosso, “educato” ed esaltato dal contributo di formatori eccellenti – oltre allo stesso Gianni Ferrara: Ugo Saccardi, Dante Nannoni, Giovanni Klaus Koenig, Vittorio Franchetti Pardo, Mario Maioli, Pier Angiolo Cetica, Pierluigi Spadolini [02]. Talento peraltro, per così dire, “temprato” sia nelle occasioni concorsuali affrontate da Bimbi e Gioacchini ancora studenti [03], sia nel successivo quasi immediato stage tenuto (su consiglio dello stesso Spadolini) presso il miglior studio milanese del periodo (1968-‘70): quello di Nizzoli Associati all’epoca frequentato da Mario Oliveri e Alessandro Mendini.

[02] Questi alcuni dei nomi del corpo docente della scuola di Porta Romana nel periodo di frequentazione di Carlo Bimbi e Nilo Gioacchini.

[03] A proposito della formazione del periodo, un tratto forse poco rimarcato era la relativa facilità d’accesso a sbocchi concorsuali per le attività svolte all’interno dei corsi. Fatto che, fin dalla fine degli anni 60, aveva consentito a Bimbi e Gioacchini di avere all’attivo sia prodotti in catalogo scaturiti da esercitazioni studentesche (il tavolo smontabile Haggard per Planula e la lampada da tavolo Radar per Guzzini elaborati per il corso di Progettazione tenuto da Mario Maioli), sia elaborati concorsuali che avevano ottenuto l’attenzione di riviste specialistiche importanti come, ad es. il Tuttuno, mobile totale che, pur se realizzato in pochissimi prototipi, aveva partecipato, su invito di Ambasz nel 1972 alla mostra newyorkese del MoMA - The Museum of Modern Art, Italy: The New Domestic Landscape proprio grazie agli articoli ottenuti dopo la partecipazione al Concorso Il laminato plastico nell’arredamento organizzato da A.B.E.T. - Anonima Braidese Estratti Tannici Print alla M.I.A. - Mostra Internazionale dell’Arredamento di Monza del 1969.

Alle spalle della qualità di progetto manifestata dai due giovani autori andava pertanto riconosciuto anche il contributo di una realtà formativa praticamente pionieristica e d’eccellenza che aveva avuto modo di venire assai presto “saggiata” nella pratica concreta. Non solo. Per dar conto dell’exploit rappresentato da Quadrone si doveva quasi necessariamente riuscire a far spiccare l’intero pool interdisciplinare attivatosi intorno al prodotto – dalla sua ideazione alla definitiva immissione sul mercato. Comprendere appieno il progetto Quadrone, significava perciò, riuscire almeno a decantarne un elenco minimale dei principali nomi coinvolti nel suo progetto.

Per titoli principali, le eccellenti figure riconducibili all’ideale “formazione” di Quadrone, potevano dunque essere condensate come segue: Progetto: Internotredici, all’epoca ormai rodato trio, pluripremiato [04] e riconosciuto internazionalmente con prodotti anche di successo in catalogo; Produzione: Bardi, azienda fondata da Gino Bardi di esperienza quindicennale ma con sede in un territorio – Quarrata – che viveva di produzione del mobile fin dagli anni 20 elaborando numerose proposte tese a soddisfare il requisito di “trasformabilità” almeno dagli anni 50; Tessuti: Graziella Guidotti, «storica della cultura tessile in Italia» dedita «al recupero e alla classificazione dei tessuti popolari e dei prodotti tessili in Italia» unanimemente annoverata tra le maggiori conoscitrici «della storia, delle tecniche, e del valore culturale dei tessuti» [05]; Comunicazione: Mario Lovergine, ceramista, scenografo, illustratore e designer, da poco rientrato da un triennale soggiorno|stage a New York e con, già al suo attivo, importanti collaborazioni con Poltronova (la poltrona-divanetto a due posti Joe di De Pas, D’Urbino, Lomazzi); Fotografia: Tam Fagiuoli, autore noto per aver legato le proprie immagini all’Agenzia Leader (Gilberto Filippetti e Pierfrancesco Tamburini, detto Pico) e ad alcune delle campagne pubblicitarie più famose della Vespa Piaggio; Distribuzione: Ida e Mario Bonacchi [06], storica coppia nella vita e nel lavoro, proprietari del più noto e influente showroom dedicato al design – in negozio Interform di via Lamarmora –, nonché pionieri del design in Toscana, e che tra i primi proposero al pubblico Quadrone nei loro spazi intuendone fin dall’inizio le virtù non effimere.

[04] Premio Speciale Bayer Concorso Internazionale del Mobile, Fiera di Trieste - Trieste1970; I e II premio Concorso Naz. Mobili in laminato plastico Abet-Print, - Pesaro 1971; I premio Concorso Naz. per la Progettazione di Oggetti in Alabastro, - Volterra 1972; Mostra Italy: The New Domestic Landscape, MoMA - New York 1972; Selezione Bio 5 Biennale di disegno industriale - Ljubljana 1973.

[05] Marica Barghetti, Graziella Guidotti, “Enciclopedia delle donne” (www.enciclopediadelledonne.it/biografie/graziella-guidotti/).

[06] La cui recente scomparsa, avvenuta i primi di giugno 2018, meriterebbe ben più che questo breve accenno in nota.

Un collegio elargitore di tributi – quasi un parterre de rois –, che ha ancora più peso e consistenza perché è solo un florilegio che intercetta unicamente alcuni dei vertici più esposti di una ben più fitta rete di relazioni e stakeholder del retroterra quasi-necessario al quale un qualsiasi prodotto eccellente si trova di fatto incatenato. Catena di relazioni e decisivi apporti la cui forza e capacità di resistenza globale – come accade per qualsiasi catena reale –, dipende da quella garantita dall’anello più debole. Sicché, volendo anticipare un dato di sintesi, il tenore di resilienza (reale e mnemonica) di Quadrone come di gran parte dei prodotti raccolti da MuDeTo sta soprattutto nel peculiare vigore manifestato da tutti gli anelli (concettuali e pratici) che hanno contribuito alla sua più o meno lenta gestazione.

Qual è dunque il senso, o almeno cosa si dovrebbe pretendere oggi da una riedizione di Quadrone? In primo luogo l’averne compreso la più che evidente compatibilità con l’attuale temperie culturale, apparentemente attenta e sensibile nei riguardi di ogni proposta tesa a riconsiderare valorialmente prodotti vintage. In seconda battuta la consapevolezza che gran parte del valore di quei prodotti non risiede né in fortuite coincidenze né in gratuiti mix d’improvvisazione tecnologica e rivoluzionaria genialità performativa: c’è piuttosto cura, serio studio spaziale, professionale pazienza, tattile meditazione, vigile ascolto e avveduta considerazione dei vari step operativi impliciti nel “fare prodotto”. In terza istanza la constatazione che il ricorso alla storia del design non può ammettere che un’unica sentenza: un reale processo di riqualificazione dell’odierna produzione industriale prevede e pretende, esattamente come ieri, il ripristino dell’eccellenza in ogni ambito della filiera, in ogni ganglo della rete tramite la quale il “fare prodotto” si nutre e vive: formazione (ivi compresi stage ed esperienze concorsuali); cultura del progetto; maturata esperienza sui materiali; prudenziale aggiornamento tecnologico; riflessiva ricerca e sperimentazione; pertinenza comunicativa; competenza distributiva.

La riconquista del terreno perduto in questi oltre 40 anni non sarà facile, ma la lezione di Quadrone non può e non deve essere smentita: l’eccellenza di prodotto non è che l’epitome, il distillato di risulta di una galassia senziente e operativa i cui pregi e le cui doti restano sovente “dietro le quinte” e solo raramente vengono intesi come elementi attivi del sistema di pratiche in cui si trova inserito un prodotto. Non per caso, buona parte di tale galassia prende il nome fuorviante di “indotto” solo perché il senso di lettura (le lenti con cui si osserva il sistema) s’avvia a partire dal prodotto finito e non, viceversa, in quanto processo sorgivo – prospettiva dalla quale risulterebbe folle concepire l’emersione della qualità e dell’eccellenza produttiva scissa dal’energia promanante dal sottobosco d’industrie e artigiani di subfornitura che coopera con l’imprenditoria terminale.

Il prodotto di qualità è pertanto il frutto – intrecciato e coordinato ad arte – di una rete di ulteriori eccellenze individuali e collettive di figure professionali e di micro imprese il cui sostegno e mantenimento ha sempre e comunque rappresentato un elevato costo economico, sociale e imprenditoriale. Scorciatoie che rifuggano tale regola aurea, applicabile praticamente a una qualunque filiera produttiva di qualità, non esistono né paiono auspicabili.

Se, come è lecito supporre, proprio questo è il percorso intrapreso da Bardi con l’insperata quanto auspicatissima reprise tipologico-spaziale di Quadrone, non c’è che da ringraziare Massimo Bardi per aver optato di riproporre oggi, pressoché tal quale, un progetto così sottilmente innovatore da provocare ancora oggi stupore e sorpresa in chi vi si approssimi per la prima volta. Così come bisogna esser grati a Carlo Bimbi e Nilo Gioacchini per aver continuato a promuoversi non solo in quanto prefiguratori di mondi a venire, ma anche come orgogliosi custodi di un passato degno d’essere ricordato, onorato e – perché no? –, magari tramite concorsi, evoluto in senso incrementale dalle attuali promesse del design di domani. Ma lasciatemi persino manifestare una punta di presunzione confidando nel fatto che forse, sotto sotto, anche l’interesse dimostrato da MuDeTo alcuni anni orsono per questa importante creazione tutta toscana abbia contribuito, almeno in parte, a innescare questa più che legittima, risarcitoria, riedizione d’autore.

Titolo / Title:

Quadrone: un'auspicata riedizione dopo oltre 40 anni

Autore / Author:

Umberto Rovelli

Luogo / Place:

Firenze

Data / Date:

13 novembre 2018

001	Carlo Bimbi, Nilo Gioacchini, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974 | 2018 (riedizione), Bardi | © & courtesy Bardi
001	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Ufficio Tecnico Ing. A. Mannucci for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
002	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
003	Carlo Bimbi, Nilo Gioacchini, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974 | 2018 (riedizione), Bardi | © & courtesy Bardi
004	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Ufficio Tecnico Ing. A. Mannucci for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
005	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
006	Carlo Bimbi, Nilo Gioacchini, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974 | 2018 (riedizione), Bardi | © & courtesy Bardi
007	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Tam Fagiuoli for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
008	Carlo Bimbi, Nilo Gioacchini, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974 | 2018 (riedizione), Bardi | © & courtesy Bardi
009	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Tam Fagiuoli for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
010	Carlo Bimbi, Nilo Gioacchini, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974 | 2018 (riedizione), Bardi | © & courtesy Bardi
011	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Studio Mario Lovergine (graphic) + Tam Fagiuoli (photos) for Bardicourtesy, Carlo Bimbi design
012	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Studio Mario Lovergine (graphic) + Tam Fagiuoli (photos) for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
013	Carlo Bimbi, Nilo Gioacchini, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974 | 2018 (riedizione), Bardi | © & courtesy Bardi
014	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Tam Fagiuoli for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
015	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Tam Fagiuoli for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
016	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Tam Fagiuoli for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
017	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
018	Carlo Bimbi, Nilo Gioacchini, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974 | 2018 (riedizione), Bardi | © & courtesy Bardi
019	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Tam Fagiuoli for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
020	Carlo Bimbi, Nilo Gioacchini, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974 | 2018 (riedizione), Bardi | © & courtesy Bardi
021	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Tam Fagiuoli for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
022	Carlo Bimbi, Nilo Gioacchini, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974 | 2018 (riedizione), Bardi | © & courtesy Bardi
023	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Tam Fagiuoli for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
024	Carlo Bimbi, Nilo Gioacchini, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974 | 2018 (riedizione), Bardi | © & courtesy Bardi
025	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Tam Fagiuoli for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
026	Carlo Bimbi, Nilo Gioacchini, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974 | 2018 (riedizione), Bardi | © & courtesy Bardi
027	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Studio Mario Lovergine for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
028	Carlo Bimbi, Nilo Gioacchini, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974 | 2018 (riedizione), Bardi | © & courtesy Bardi
029	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | © Fototecnica (MI) for Bardi, courtesy Carlo Bimbi design
030	Internotredici, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974, Bardidue | courtesy Carlo Bimbi design
031	Carlo Bimbi, Nilo Gioacchini, Quadrone - trasformabile imbottito soggiorno | letto, 1974 | 2018 (riedizione), Bardi | © & courtesy Bardi

Trasformabile imbottito in poliuretano e falda acrilica su struttura portante in legno e tubo di acciaio cromato.
L'abbassamento totale dello schienale-bracciolo (fino all'altezza del piano della seduta) dà modo all'utente di trasformare la seduta singola in un tavolo/pouf aggregabile in letto singolo (ottenibile da due poltrone) o letto singolo (ottenibile da divano), ulteriormente aggregabili in letto matrimoniale. La trasformazione si ottiene manualmente con un semplicissimo movimento senza l'intervento di parti meccaniche o l'ausilio di ulteriore strumentazione tecnica.

L'unione dei vari elementi (poltrona e divano) consente di ottenere composizioni diverse: da letto a divano, a poltrona relax, a comoda piattaforma dove sedersi in più persone. Con un divano e due poltrone (o due divani) si ottengono due letti singoli oppure un letto matrimoniale.

Su richiesta venivano forniti speciali lenzuoli con elastico, appositamente studiati per il sistema.

Dimensioni:
Divano (l. 204 / p. 84 / h. 40)
Poltrona (l.102 / p. 84 / h. 40)

1970-‘83	name:	Internotredici

1956	name:	Bardidue

2006	Mostra Luoghi d‘incontro, Pinacoteca Comunale / Palazzo Minucci Solaini - Volterra

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2010	Umberto Rovelli (a cura di), Interviste sul progetto. Dieci anni di incontri col design su IdeaMagazine.net Franco Angeli - Milano
2010	Nilo Gioacchini, Il design delle cose percepibili. Materie e sistemi nel progetto contemporaneo "IdeaMagazine.net", Firenze
2009	Stefano Follesa, Pane e Progetto. Il mestiere di designer Franco Angeli, Milano
2005	Carlo Bimbi, Del progetto a molte dimensioni "IdeaMagazine.net", Firenze
1996	Paola Palma, L'estetica della funzione, “Area”, 24, gennaio / febbraio
1995	Carlo Bimbi, Diario di lavoro (1970-1995) Alinea - Firenze
1975	s. a, “Quadrone” trasformabile. Un divano che diventa letto o poltrona “Domus” n. 543, febbraio

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