AREA TEMATICA | Design per l'Abitare |
TIPOLOGIA | Collezione di sedute |
ANNO | 2011 |
PROGETTO | Francesco Geraci |
PRODUZIONE / PER | Et al. (Metalmobil) |
RICONOSCIMENTI | [...] |
Il medesimo disincanto e spregiudicatezza rinvenibile, tra l’altro, nel divanetto Bubble Club ideato da Philippe Starck per Kartell nel 2000. Dove la mimesi plastica del “divano della nonna” (realizzata dall’archistar francese utilizzando la tecnologia a stampaggio rotazionale), richiama appunto le linee e i profili di una domesticità ormai perduta schiudendo al contempo a quella stessa silhouette – morente – una nuova vita sufficientemente fresca, frivola e fruibile nell’ambito sia dell’office che dell’outdoor. Rendendola credibilmente efficace e moderna da arredare senza imbarazzi o tentennamenti di sorta sia un giardino che un bordo piscina o un terrazzo, come si può ancora leggere nelle brochure aziendali di presentazione.
A dieci anni di distanza, col mirabile acume progettuale che lo contraddistingue, di questo lavoro, molto fortunato, Francesco Geraci sa ormai decifrare perfettamente la sintassi segreta intuendone, assai prima di altri, possibili sviluppi ed elaborazioni audaci e vincenti. Al punto da immaginare un'evoluzione scultorea decisamente azzardata e quanto mai felice di tale reprise formale d'antan: ottenere su una scocca (seduta-schienale) in polipropilene una texture a effetto trapuntato sul fronte, con finitura lucida sul retro. Realizzare, cioè, un unico elemento continuo, con entrambi i lembi – positivo, sul fronte, e negativo, sul retro – perfettamente a vista. Senza ricorrere ad alcun escamotage o espediente eufemistico volto a “contenere” l’audacia dell’effetto, ossia scommettendo sulla forza plastica della nuda convessità speculare “scolpita” sul retro dello schienale della scocca e lasciata en pleine vue. Un'identica aspirazione evocativa accomuna le due sfide progettuali, ma l'economia di mezzi della seconda è innegabile, proprio perché da quel suo consapevole attardarsi liminarmente sulla soglia della tridimensionalità, sa trarre accortamente i vantaggi derivanti – ad esempio, i ridotti costi esecutivi, di stoccaggio, logistici, ecc.
Per il contorno perimetrale della scocca della seduta – ovvero l’area di stampa dell’effigie convessa trapuntata –, la scelta di Geraci è decisamente ispirata alle magiche curve individuate da Vico Magistretti per delineare la sua Maui (Kartell, 1995). Forse non casualmente, la stessa seduta del maestro milanese costituiva un’operazione di “re-design” che, ispirata alle sedute in legno multistrato curvato di Arne Jacobsen, intendeva ottenerne il medesimo morbido effetto plastico ricorrendo a una doppia curvatura “strutturale” collocata nell’area tra schienale e sedile e in grado di offrire la resistenza necessaria a realizzare un pezzo unico di forte spessore ma privo elementi in rilievo quali le nervature di irrigidimento.
Sicché, pur adottando, per il disegno della scocca di Uni, una soluzione analoga a quella elaborata da Magistretti, con un azzardo notevole quanto geniale, Geraci resce a innescare una sorta di dispettoso contraltare che vibratamente si pone a contrasto dell’orizzonte di senso originario. La quiete della liscia epidermide della seduta è perciò animata da un sommovimento interiore, un ordito irriverente ed efficace, un brulichìo plastico che innerva fin quasi a contestare il complesso insieme planare adottato come supporto. Sulla superficie si determina un cortocircuito valoriale tra le parti in gioco e un rinnovato ruolo estetico-espressivo viene attribuito proprio a quelle nervature che, nella scelta progettuale di Magistretti, l’adozione della peculiare doppia curvatura intendeva originariamente evitare per ragioni strutturali.
La sedia Uni è cosi l’esito paradossale di un’eretica coincidentia oppositorum, una sorta d’irresolubile double bind che incatena e soggioga chiunque la osservi anche solo di sfuggita. Il richiamo plastico a un’illusoria imbottitura (la trapuntatura a losanghe, tipo “capitonné”, che evoca e al contempo nega anelate sofficità materiali) rassoda e "inspessisce" un impianto planare di per sé molto esile e leggero. Palesando, peraltro, come, per Geraci, proprio nel ricercato sdoppiamento su più registri (in primo luogo quello visivo e quello tattile) stia la vera natura del progetto di design.
Segnala, anzi, ed esemplifica altrettanto attendibilmente, come la specificità stessa del design risieda non tanto nell’ottenere priorità e primati quanto piuttosto nel dare valore a "secondarietà" e "derive". Concorre, cioè, a delineare un orizzonte antropologico-esistenziale e culturale in cui ogni “nuovo” debba esere inteso, eminentemente, come “evoluzione” realizzata “a partire da” un consolidato traditum.
Come nota sempre Trione per coloro «che praticano il crossover [...] eseguire un’opera non è far nascere qualcosa dal niente, ma è “un trovare e un ritrovare, che ha per merito principale il rinnovo dei luoghi di un’eterna dimora comune”. Insomma, non pretendono più di essere padri di se stessi. Decisiva, per loro, è la strategia della distanza. Che consiste nell’avvicinare a noi qualcosa di lontano, conservandolo però nella sua lontananza. “Solo questa fusione può accrescere e intensificare, come tra due persone, la vitalità di un rapporto”. Ma occorre attesa, prudenza». Gli autori «del crossover si sottraggono alla dittatura del presente, che è simile a una “lavagna sulla quale una mano invisibile cancella senza posa avvenimenti sempre diversi”. Guidati da una nostalgia attiva, non aderiscono al nuovo come valore da idolatrare. E non vogliono spingersi solo oltre. Ricercano efficaci antidoti per affrancarsi dall’assedio ossessivo dell’attualità. Non credono in Cronos, che divora i suoi figli, ma in Mnemosyne, che assicura il passaggio dei ricordi tra generazioni. Scelgono, perciò, di rifugiarsi criticamente nell’alveo della tradizione – trasmissione dai padri ai figli di un insieme di modelli formali e stilistici. Riaffermano con forza l’importanza di quella che, con le parole di Jonathan Lethem, potremmo definire the ecstasy of infuence»[05].
Ed è anche come una sinuosa ghirlanda di plagi scaturita dall’ecstasy of infuence che va intesa e compresa la stepitosa messe di “varianti” di Uni nei quasi tre lustri che vanno dal 2011 a oggi (2024). Sebbene alcune di esse siano state materialmente realizzate dopo la scomparsa di Geraci, tali varianti sono un’eredità autorale innegabile. Anche in questo frangente l’opera di Philippe Starck è quella che più da vicino riesce a dar conto di una pratica quasi funambolica di cui il designer fiorentino dà sfoggio con la vasta gamma di Uni. Dal designer francese, Geraci ha colto in particolare la sostanziale costante paratattica con la quale la composizione di scocca e supporti viene effettuata in una nutrita serie di sedute di successo realizzate da Starck: dalla poltroncina Costes (Driade, 1984) alle successive Richard III (Baleri, 1986), Luis 20 (Vitra, 1990) a P/Wood (Kartell, 2018) passando per Lord Yo (Driade, 1993). In ognuna di esse emerge con evidenza la ricerca di uno iato quasi conflittuale (di ascendenza storica, materiale, consistenza plastico-volumetrica, ecc.) tra gli elementi in contatto. Se ne propone così la sintesi come una sorta di disgiunta coappartenza (o giustapposizione) che non nega allo stridìo (formale, materiale, d'epoca) la cittadinanza compositiva in un complesso la cui vita armonica non è affatto indipendente dal pólemos.
Anche in questo caso, però, Francesco Geraci si cimenta in una sfida al rilancio: fare, cioè, un ulteriore passo, realizzando una sorta di “carosello identitario” che lo porta a sperimentare all’interno della stessa collezione quanto Starck ottiene su e con diversi prodotti. Nella diade di richiami nobili (il contorno plastico della Maui e la texture a effetto imbottito trapuntato) è pertanto lo stesso concetto di gamma a costituire l'innesco per forzare le maglie ristrette della “norma”, sottoponendo, al designer come all'azienda, la dirimente questione del “progetto” specificamente rivolto alle esigenze delle differenti tipologie d'uso da considerare e risolvere di volta in volta. Sottotemi di fruibilità ai diversi ambiti del conctract che a loro volta diventano occasione per offrire nuovi sembianti a quell’antitesi di identità e alterità che è la memoria.
Fino a che punto un prodotto è identificabile come quel prodotto e non altri, e, più in generale, fino a che punto una cosa è quella cosa e non altre? L’intera collezione Uni sembra un’incessante messa alla prova dei “limiti” identitari di quel nome così imperiosamente laconico. Benché adunate a una forma, un’idea progettuale netta e immediatamente riconoscibile, passando in rassegna le numerose occasioni d’uso proposte per quel medesimo “segno” seriale immediatamente riconoscibile rappresentato dall’univoca scocca, sembra quasi che il designer – e, s’intende, anche l’azienda – si siano compiaciuti di constatare quanti diversi modi di applicare (tradendola) una peculiare impronta identitaria siano consentiti dall’occasionalità del furniture. La collezione Uni, nome quanto mai evasivo e reticente, oggi equivale così a una moltitudine di stranger familiar: tutti simili, ma altrettanto dotati di spiccate personalità e inclinazioni.
Ma il merito di tutto ciò, vale la pena ribadirlo, si deve proprio a quel tratto bipolare che convive nel paradosso plastico della scocca “trapuntata” intuita e messa in opera da Geraci. È infatti quella bifida sembianza che garantisce uno spessore plastico – più che altro “virtuale” e immaginario che reale – all'esile involucro in polipropilene. La volumetria e l'impatto dell'insieme plastico sono pertanto sia ariosi e leggeri (ergo abbinabili con telai in tubo d'acciaio e a traliccio in tondino d'acciaio) che solidi e “corposi” (ergo abbinabili con i più massicci e “autorevoli” telai lignei). E ben al di là d'essere un ambiguo quanto stucchevole gioco di prestigio, la mimesi dell'imbottitura è lo stratagema astuto – una sorta di “cavallo di Troia” – che consente a Uni una polimorfa e positiva carriera all'interno di una sconcertante varietà di contesti d'uso – coffee & restaurants, hotels, educational, entertainment, travel, office e waiting areas, retail, health care, outdoor.
Accanto alle “classiche” Uni 550 (sedia con telaio a 4 gambe in tubo di acciaio) Uni 378 (sgabello con telaio a 4 gambe in tubo acciaio con seduta bar, h 76 cm) e Uni 378B (sgabello con telaio a 4 gambe in tubo acciaio con seduta penisola, h 65 cm) troviamo la poltroncina con braccioli Uni 551. A seguire la Uni 553 (sedia con telaio a traliccio in tondino acciaio), il rispettivo sgabello Uni 391 e la Uni 552 (sedia con telaio a slitta in tondino acciaio) disponibile sia con sistema aggancio (Uni 552G) che con tavoletta conferenza antipanico (Uni 552G-T) o entrambi (Uni 552G-T). Il parco dell’offerta in tubo d’acciaio si chiude quindi con le due sedie con telaio da mensa Uni 544 e Uni 565.
Concepita presumibilmente per contesti meno ordinari è poi la serie con telaio a 4 gambe in faggio. Quest’ultime disponibili sia a sezione “squadrata” – la Uni 562 e la Uni 386, rispettivamente sedia e sgabello –, sia a sezione “tonda” – la Uni 577 e la Uni 393, rispettivamente sedia e sgabello –, nonché la più recente sedia Uni 602 che, adottando un telaio in ferro, ha un aspetto considerevolmente più asciutto, leggero e contemporaneo.
Con telaio a basamento centrale in acciaio, girevole sono quindi disponibili la sedia Uni 603 e gli sgabelli con meccanismo di ritorno Uni 380 (con seduta bar, h 76 cm) e Uni 380B (con seduta penisola, h 65 cm). Le versioni office sono rappresentate dalle sedie con telaio a 5 razze in alluminio, girevoli Uni 558-DP e Uni 558-DR (su ruote).
Infine i sistemi di sedute d’attesa su barra e telaio in acciaio sono i seguenti: Uni 220 (2 posti con pianetto), Uni 221 (3 posti), Uni 222 (3 posti con pianetto), Uni 223 (4 posti).
E tutto ciò senza contare l’ultimo coup de théâtre escogitato dall’azienda: le versioni realmente imbottite che propongono per quasi tutte le sedie e sgabelli appena citate una maliziosa variante M che, lasciando a vista solo il verso “negativo” dischiude un’inaspettato tenore sexy a ogni modello che così rivestito rammenta molto da vicino l’effetto “provocato” da un abito dotato, dietro, di una scollatura vertiginosa.
Se si tiene presente che i tubi in acciaio possono essere verniciati in tutte le gamme cromatiche in cui sono disponibili le scocche, la potenza caleidoscopica dell’intera gamma appare di tutta evidenza. Tra l’altro permettendo una contestualizzazione in qualsiasi ambito di impiego, dal privato al commerciale. Anzi, con questo progetto Geraci dimostra di aver saputo cogliere con grande sapienza, sia nello spirito che nel corpo, le opportune “cornici” e “regie” per affrontare al meglio il mercato del terzo millennio. La sua ultima seduta, forte ormai di un abbrivio quindicinale, peraltro rimarca come, anche in un mercato fortemente influenzato dalle leadership personali e dai brand più noti, la strategica cosapevolezza del progetto Uni risulti più efficace di molte altre – e assai più celebrate – produzioni nazionali e inernazionali.
Rigore mercantile, adeguata considerazione degli ambiti d’utilizzo e raffinato talento per il pastiche, mantengono Uni perfettamente in bilico tra rievocazione storica del passato e tradimento materiale dello stesso. E ciò anche in forza di un’abilità non comune: un citare accorto che crea un gioco di specchi tanto esplicito quanto rattratto nelle sue logiche conseguenze. Progetto colto e insieme popolare, questa prova testamentaria di Geraci ne rivela al meglio le doti di “concertatore”, ovvero di talento amministrativo volto non tanto “semplicemente” a foggiar sedie, quanto piuttosto a “formare aziende”, dando loro modo di crescere rinsaldando le relazioni economiche del territorio sul quale gravitavano.
Un ruolo storico che Francesco Geraci ha onorato con metodo e cartesiana misura, entrambi radicati profondamente in una fiducia – per certi versi fin de siècle – nel progresso e nella capacità di durata e di presa nei confronti del pubblico del gusto classico – ovvero dello stile neo-classico in senso ottocentesco. Un metodo nei cui risultati pare possibile rinvenire l’ordito positivo di una ancora persistente weltanschauung – magari “in minore”, ma – assolutamente coglibile, istruttiva e trasmissibile anche in questi anni globalizzati, finanziarizzati e automatizzati che stanno ledendo la consistenza di una qualsiasi classe sociale alla quale poter “fare riferimento” col progetto di design nel XXI secolo.