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LINKY [2018]












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COLLEZIONE MUDETO



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LINKY 
AREA TEMATICA Design per la Mobilità
TIPOLOGIA Longboard elettrico
ANNO 1973 (1969)
PROGETTO Paolo Pipponzi (Linky R&D), Giovanni Pierantoni
PRODUZIONE / PER Linky Innovation
RICONOSCIMENTI Mostra Italia Geniale. Design Enables, - Expo 2020 - Dubai [UAE], ADI Design Index 2019 - Milano

MOTIVAZIONE 


di: Umberto Rovelli 

Nel settore della mobilità, che spesso comporta l’integrazione combinata di diversi mezzi di trasporto, si assiste a una costante crescita di proposte alternative. Nel corso del decennio sono state elaborate non solo varianti “parassitarie” di gamme già esistenti, ma anche tipologie veicolari inedite, come nel caso del longboard elettrico high-tech ideato da Paolo Pipponzi, brevettato – con Fabio De Minicis e Cristiano Nardi – nel 2016 e finalmente messo in produzione nel 2018 – con la significativa collaborazione progettuale di Giovanni Pierantoni – per la marchigiana Linky Innovation, azienda specializzata nella realizzazione di ausili per la mobilità, con sede a Monte Vidon Corrado, comprensorio artigiano di Fermo. Sede che è anche luogo di nascita del geniale ingegnere ideatore di questo prodotto destinato, in prima battuta, al crescente popolo “nomade” del pendolarismo che adotta con sempre maggiore frequenza modalità di trasferimento sul territorio (per studio o per lavoro) che non prevedono l’uso dell’auto tradizionale, bensì l’abbinamento strategico e costante di veicoli pubblici (bus, tram, treno) e mezzi più tipicamente individuali – bici, skateboard, monopattini, scooter – a trazione elettrica.

Come sovente accade nelle vicende in cui sono coinvolte le start-up più innovative, i primi passi dell’azienda fermana – alla quale, oltre ai citati, all’epoca compartecipa Giovanni Laserra – si fondano su (e originano da) una passione che accomuna i co-fondatori, Paolo Pipponzi e Cristiano Nardi: viaggiare. Ma soprattutto – come altrettanto spesso accade – la passione progettuale più sincera muove da difficoltà realmente vissute. Racconta infatti Pipponzi che l’idea di realizzare uno skateboard elettrico si può far risalire al 2014 quando, come ingegnere meccanico, lavorava alla Ducati Motor Holding di Borgo Panigale, un rione ai margini della provincia bolognese. Abitando in periferia, per il laureato ventisettenne raggiungere agevolmente il centro era una chimera e «spinto dall’urgenza di trovare più libertà di movimento (e anche dopo aver preso decine di multe!)», proprio in quei mesi inizia «a disegnare i primi schizzi»[01]. In seguito, trasferitosi a Edimburgo – città che, a differenza di Bologna ha una rete assai ramificata di «servizi pubblici funzionali e accessibili, una generale serenità e calma delle persone e, non ultimo, una grande attenzione per il “trasporto verde”» – l’ingegnere riesce finalmente a presagire quanto la quotidiana esperienza in Italia non gli dava modo di intuire appieno. Ovvero «tutte le potenzialità del mezzo» e di quanto, in un contesto adeguato, quest’ultimo «potesse funzionare bene». Ritornato in patria, anche al fine di «valutare dimensioni, ergonomia di guida e portabilità» realizza il «prototipo» in legno «di quello che sarebbe diventato il primo longboard elettrico pieghevole»[02], la cui lunga strada verso la definitiva messa a punto ha ancora nel viaggio la sua chiave.

Nel dicembre 2014 Cristiano Nardi è in Turchia insieme a Fabio De Minicis. L’esplorazione del centro di Istanbul (priva di metropolitana) li costringe a lunghe camminate, al punto che in quel frangente De Minicis rimedia una fastidiosa tendinite. Un’esperienza negativa che si rivela però utilissima al progetto in quanto, una volta in Italia, De Minicis decide di offrire il proprio contributo al futuro di Linky progettandone l’elettronica: è lo step che conduce alla realizzazione del primo prototipo funzionante dello skateboard.

Il modello – argutamente denominato Linky – si contraddistingue per una serie di innovazioni tecnologiche progettate e ottimizzate al fine di garantire una eccezionale portabilità assicurando al contempo prestazioni di altissimo livello. Di fatto, la novità principale dello skateboard – per certi versi rivoluzionaria per la tipologia del mezzo – consiste nell’adozione di un sistema di piega della struttura sulla quale posano le due porzioni asimmetriche del piano di appoggio del veicolo brevettato internazionalmente (come detto, da Pipponzi, Nardi e De Minicis nel dicembre 2016). Un meccanismo a due tempi (fissato da un fermaglio di sicurezza attivato manualmente) che, unico nel mercato, dà modo ai suoi fruitori occasionali o seriali – i cosidetti riders – di compattare agevolmente il veicolo secondo la necessità del momento. Al veicolo quindi, come spesso accade agli oggetti “ibridi”, sono accessibili sia i vantaggi di comfort dovuti all’estensione della tavola di base – di qui il termine longboard – sia le prerogative del piccolo formato rappresentate dal poter essere inserito in una borsa, o in uno zaino, da tenere con sé anche durante il trasporto in aereo.

Nel febbraio 2015 anche Cristiano Nardi si unisce al progetto in qualità di marketing manager collaborando decisamente alla concezione di un marchio legato al prodotto che, nel frattempo percorre i suoi primi 500 km: una serie di test che portano da un lato alla conferma della «scelta del pacco batteria», dall’altro alla decisione di «effettuare un downgrade della potenza del motore da 2000 a 1000 watt per favorire la portabilità e l’autonomia. Sempre in questo periodo, dopo la prima fase di» prova «vengono ulteriormente esplorate la portabilità e l’ergonomia di guida. A maggio 2015 il [...] progetto» supera «la prima fase del concorso ECapital, un’importante business plan competition» regionale. E ancora «a maggio è pronto il primo prototipo di zaini, mentre a giugno» viene avviata la richiesta di brevetto per «l’innovativo sistema di piegatura»[03]. Nell’anno in corso i due obiettivi principali per condurre a termine l’iniziativa sono la definizione accurata dei dettagli costruttivi e il reperimento dei capitali necessari per la vendita dei primi 50 esemplari». Si avvia, pertanto, «una campagna di crowdfunding su Kickstarter» che, però – nonostante un quarto della cifra finale, 100.000 euro, venga raccolto nei primi due giorni –, non raggiunge l’obiettivo prefissato. Nel 2016 «una volta ottenuto il brevetto» viene «realizzato un prototipo e lanciato su un portale, Indigogo, un» ulteriore «crowdfunding». E questa volta si tratta di «un grande successo, soprattutto negli Usa con 290 mila euro raccolti in due mesi»[04].

Alcuni mesi più tardi, sempre nel 2016, la rete di relazioni e figure coinvolte in Linky comincia a “tingersi” di Toscana. Forte anche dell’esperienza svolta in Ducati, Paolo Pipponzi è invitato a collaborare con Ergenia alla definizione della versione evolutiva (a quattro ruote) dell'ormai storico Risciò elettrico della Pasquali (di cui abbiamo parlato in una precedente occasione). Nello stesso periodo, presso gli ex-uffici di Rifredi dell’azienda calenzanese, opera anche Giovanni Pierantoni impegnato nello sviluppo progettuale esecutivo di colonnine di ricarica elettrica sempre per conto di Ergenia. Pierantoni vanta un background interessante per l’ingegnere fermano che ormai ha maturato un’attitudine a rispondere alla crescita di complessità progettuali esecutive e gestionali che sta affrontando nella messa a punto di Linky creando man mano un team di figure professionali sempre più allargato per esperienza e spettro di competenze a disposizione. All’epoca del loro incontro a Firenze, Pipponzi ha qualche perplessità nei riguardi della grafica promozionale dello skateboard, in vista della campagna di crowdfunding con la quale intende supportare l’impegno finanziario che comporta sia l’implementazione progettuale che la produzione definitiva e su larga scala del già promettente Linky.

Bolognese di nascita, ma da almeno un decennio attivo in regione, Pierantoni ha già al suo attivo una consistente collaborazione con Giuseppe Mincolelli – leader dello studio Lineaguida – che ha portato, tra l’altro, il computer da polso Eurotech Zypad WL1100 ad aggiudicarsi l’ADI Design Index 2008. Pur occupandosi quotidianamente di product design (settore nel quale si aggiudica anche l’ADI Design Index 2015 col progetto delle colonnine di ricarica All In One realizzate da Alfazero), Pierantoni manifesta da sempre un’altrettanto forte propensione per lavori di grafica sui quali vanta talento e confidenza almeno pari a quella progettuale in senso stretto. Inoltre è un più che convinto escursionista appassionato di bicicletta e, non ultimo, anche la moglie è originaria di Fermo, per cui frequenta da tempo – ergo conosce molto bene – la zona marchigiana dove ha sede la Linky Innovation. Fin da subito, pertanto, manifesta un feeling sincero e non superficiale sia con l’idea di partecipare alla realizzazione di un mezzo di locomozione alternativo rispetto a quanto fino allora proposto dal mercato, sia con le tematiche ecologiche implicite nella nuova proposta.

Nel contesto attuale il pendolarismo è un fenomeno crescente che riguarda un bacino potenziale molto vasto, giovane (in gran parte tra i 20 e i 30 anni), intraprendente e certo ben disposto nei riguardi delle innovazioni. La “popolarità” e “attuabilità” delle varie proposte ideate sul tema (sia istituzionali che di mercato) è però in stretta relazione – e, per certi versi, vincolata – alla caratteristiche di reattività, efficienza e fluidità offerte e garantite dalla mobilità urbana nella quale l’utente è, di fatto, “inscritto”. Reattività, efficienza e fluidità che, come gli stessi promotori del progetto hanno sperimentato, non è affatto uniforme sul territorio italiano e internazionale. Il fatto che l’utilizzo di Linky debba essere necessariamente combinato con altri mezzi di trasporto mette così a fuoco una realtà spesso poco evidenziata, ma cruciale: ogni prodotto (e ogni progetto) non va affatto considerato come un’entità a se stante bensì come parte di un sistema che determina (ed è determinato da) gerarchie mansionali e relazioni spaziali tra componenti e attori diversi, ma interdipendenti.

Nel nostro caso il segmento target dell’offerta di Linky è costituito dalla cosiddetta “Last Mile Mobility” (ossia la mobilità dell’ultimo miglio) e l’obiettivo di garantire un sempre più efficace trasporto urbano intermodale ha condotto gli autori non tanto a ricercare un peculiare impatto visivo né un adeguamento meramente tecnico-funzionale allo status quo, bensì li ha portati a individuare una modalità innovativa, semplice, sebbene finora impensata, della tipologia motorizzata. Come spesso accade, saper leggere bene un sistema equivale a porre le basi per riuscire a re-inventare i prodotti che ne fanno parte. Agire progettualmente a livello di sistema, non di rado comporta il dischiudersi inatteso di nuovo senso, il che conduce altrettanto sovente a intuire inattese sinergie in grado di aprire nuovi scenari, arrivando, da ultimo, a scatenare rivoluzioni nel campo stesso in cui si opera – talvolta aggredendo le stesse architetture di prodotto dominanti [05]. Che è, appunto, quanto accade con Linky in cui l’inserimento progettuale di una valenza cinetica nella rigida struttura del piano del deck, determina, di fatto, una sorta doppia anima – “aperta” e “chiusa” – finora sconosciuta allo skate elettrico. In altri termini, stravolgendo una caratteristica tipica del mezzo – la complanarità della tavola –, che d’ora in poi sarà invece considerata “opzionale”, dischiudendo per la prima volta un ambito di valutazione in merito alla quale al progettista è richiesta una decisione.

Se, però, al cuore di Linky – come del resto nella successiva versione 2.0 – c’è, come suol dirsi, un innegabile “colpo di genio” – il suo meccanismo di piegatura brevettato –, ciò sembra riconducibile ad almeno due alvei per così dire tradizionali e storicamente riconosciuti del progetto industriale. Da un lato una lettura eminentemente “sintattica” rivolta dagli autori al contesto (inteso come “sistema”) in cui ogni oggetto è inserito; dall’altro una propensione ad affrontare e risolvere le istanze e le problematiche riscontrate sul campo più con la tecnicalità metaprogettuale che con le strumentalità formali, cercando, tra l’altro, di prendere «da ciò che già esiste[..] l’occorrente, con una operazione di trasferimento di campo che è sempre stata il motore delle grandi invenzioni di design»[06]. L’economia del presente testo non consente di approfondire queste illazioni, ma non può essere relegato a un mero caso che sia l’ingegnere che architetto che più hanno collaborato al divenire del progetto abbiano entrambi competenze decisamente coinvolte col mondo dell’automotive e dell’elettronica applicata.

Nel primo settore l’esperienza di Pipponzi è almeno decennale e si rivela essenziale per garantire l’affidabilità della struttura dei due telai sui quali sono fissate le due piattaforme nonché la sinergica collaborazione cinetica tra il cursore e la relativa pista di scorrimento che dà modo al cursore di muoversi lungo l’asse longitudinale del secondo telaio, consentendo alla seconda piattaforma di scorrere da una posizione prossimale a una posizione distale rispetto alla prima. Nel suo complesso, il telaio risulta robusto e insieme elastico. La scelta dei materiali della struttura – provenienti, appunto, dalla sperimentazione nell’industria automobilistica – cade sui tecnopolimeri caricati con fibra di vetro e fibra di carbonio (tecnologia a stampaggio e co-stampaggio ad iniezione), mentre le pedane vengono realizzate in lastra di bambù tagliata al laser. Lo stesso motore elettrico, d’altra parte, è frutto di una maniacale attenzione per i dettagli, l’estetica e i materiali.

L'utilizzo di fibra di carbonio e bambù conferisce leggerezza e resistenza alla tavola, che, anche in ragione del peso ridotto – il prodotto così configurato pesa circa 5,5 kg, meno della metà dei modelli rivali –, raggiunge i 30 km/h superando senza scomporsi pendenze del 10-12% con un carico di 100 kg. Di tutto rilievo anche le prestazioni della batteria agli ioni di litio, anch’essa proveniente dall’industria dell’automotive. Sostituibile in pochi minuti la batteria installata su Linky garantisce un’autonomia di 18 km e una ricarica in tempi ridotti: in soli 30 minuti raggiunge infatti l’85% di carica.

Il contributo di Pierantoni che, come detto, inizialmente si limita alla componente grafica della comunicazione, si estende di mese in mese a questioni plastico-tridimensionali, arrivando ad assumere un ruolo decisivo nella realizzazione sia del packaging che del telecomando che dà modo di regolare sia la velocità che lo stile di guida del mezzo. Il disegno del supporto del remote control con cui l’utente accede alle diverse funzioni del motore, così come la definizione ergonomica ottimale della prensilità dell’oggetto allorché si compatta in “carico” da trasportare, sono solo i primi, puntuali elementi dell’insieme sui quali Pierantoni elabora le iniziali proposte migliorative. Di concerto con l’ingegnere fermano è il suo dettagliato studio volto a rendere efficace, sicura e pressoché immediata la coordinazione interattiva uomo/macchina che costituisce un ulteriore elemento critico del progetto. E anche in seguito – in particolare con la creazione di Linky 2.0 – i designer avrà modo d’incidere in modo più icastico e collegiale concorrendo, talvolta in modo decisivo, a valorizzare il complessivo impatto visivo e l’immediata piacevolezza dell’esperienza d’insieme provata dall’utente sia in fase di guida che di trasporto.

Anche a partire dalla prima generazione di Linky, sia la definizione formale dell’oggetto “reale” – sobriamente tecnica senza apparire algida o banale – sia quella dell’oggetto “comunicato” – più briosamente cromatica e veemente – nelle diverse occasioni e sedi volte a promuoverne il finanziamento, ha probabilmente giocato un ruolo non secondario nel garantire il successo internazionale – le citate oltre 1.000 unità del prodotto vendute in tutto il mondo – a un prodotto che, proprio in quanto innovazione tipologica, comporta due rilevanti azzardi – ovvero potenziali criticità – per l’accesso al mercato: la duplice novità tecnica (motore + tavola sincopata) adottata per lo skate; il costo più alto rispetto agli skate a trazione umana.

Come nel caso, per certi versi apparentabile, della vetturetta elettrica Urbanina, le inusitate peculiarità dei due modelli rispetto ai competitor dell’epoca presentano entrambe due lati “oscuri” al cui superamento l’apporto suadente e ammaliatore della “forma che convince” si rivela spesso essenziale: 1) la “inerzia tipologica”, ovvero la scarsa propensione a modificare modalità d’uso consolidate da parte del pubblico potenziale; 2) la labile propensione del consumatore a giustificare un alto costo esclusivamente sulla base delle qualità “serie” – vantaggi innovativi, funzionali, materiali, tecnici – riscontrabili nel prodotto.

Circa il primo tema, occorre ammettere che l’attuale opportunità di condividere mediaticamente il proprio lavoro attraverso la rete rappresenta un consistente vantaggio rispetto agli autori di Urbanina. Un efficace esempio del rilievo dato dal team di Linky Innovation alla comunicazione aziendale è rappresentato dalla sezione blog (o “diario”, nella versione italiana) le cui cospicue dimensioni testimoniano la rilevanza attribuita dalla dirigenza al contatto diretto con l’utente finale. Nel terzo millennio, infatti, questa opportunità di entrare immediatamente in relazione col proprio ptenziale cliente rappresenta una delle vie – se non la principale – a disposizione di un produttore/creatore per promuovere il valore e le qualità del prodotto onde giustificarne l’acquisto.

Come accennato un progetto innovativo propone uno scarto rispetto alle abitudini consolidate nell’alveo delle pratiche coinvolte dal prodotto. In tal senso – anche se, come accennato, il target di riferimento è assai giovane e reattivo –, la comparsa della “novità” sul mercato può generare nel pubblico dubbi e perplessità. Ma rispetto a Urbanina – la cui esperienza di guida prevede una consimile postura ed è per certi versi semplificata rispetto a quella delle auto comuni – il caso di Linky è forse più estremo. Persino nel proprio bacino di utenza il nuovo veicolo sembra in grado di suscitare sconcerto, diffidenza, timore reverenziale, per le difficoltà insite nell’utilizzo di ogni strumentazione non ancora sperimentata in precedenza. E nel presente caso la reazione risulta pienamente giustificata dal fatto che l'innovativa relazione persona/oggetto instaurata da un prodotto la cui modalità fruitivo-esperienziale è essenzialmente statica – come ad es. una sedia – ha ovviamente un impatto assai differente da quella instaurata da un veicolo, proprio perché, nel confrontarsi con quest’ultimo per la prima volta, ognuno di noi deve anche “imparare” qualcosa che in precedenza non ha mai fatto. In questi casi occorre, cioè, un più esplicito e corposo avviamento alla pratica che consiste quasi sempre in esercitazioni ripetute nel tempo di gesti, posture e accorgimenti il cui scopo mirato è “impratichirsi” di un’abilità, acquisendo man mano un “sapere” – ad un tempo mentale e corporeo – che prima non c’era.

Tale tirocinio propedeutico consiste essenziamente nella presa d’atto – non superficiale – che il connubio persona+oggetto+velocità non solo implica un aumento di complessità nella gestione dell’equilibrio individuale (una volta entrati in simbiosi con l’oggetto in moto), ma contempla anche un consistente innalzamento della soglia fenomenologica relazionale che il corpo – proprio in quanto “corpo in movimento” – è tenuto a considerare e valutare per reagire adeguatamente alle dinamiche proprie di un contesto divenuto d'emblée marcatamente più “aleatorio” di quello statico (o assai meno “dinamico”) di quello abituale. Un ambiente, cioè, dove, grazie al veicolo, non si è più “semplicemente” immersi (come nella stasi), ma le cui coordinate sono consistentemente mutate – e variabili – persino rispetto a quelle dischiuse nella comune esperienza del più banale e consueto moto a piedi.

Anche per un fruitore saltuario o abituale di skate il longboard dotato di motore elettrico – per giunta “pieghevole”, ergo con una netta bipartizione delle aree di posizionamento dei piedi – apre a domande, curiosità e incertezze: sarò in grado di utilizzarlo al meglio? Eviterò brutte cadute e incidenti? Timori legittimi e in qualche modo “scontati”, al punto che all’interno del sito aziendale, nell’area blog (ormai aggiornata di settimana in settimana), uno dei contributi meno recenti (a firma di Ralph Cope e datato 30 luglio 2021) è significativamente intitolato Come guidare un Longboard elettrico.

Non s’intende in questa sede fare una disamina approfondita della strategia testuale proposta dal blog aziendale, ma solo per accenni individuarne alcuni capisaldi già presenti fin da questo iniziale accostamento agli utenti web. In primo luogo l’approccio del team dirigenziale appare deliberatamente mirato a un pubblico più esteso di quello dei soli acquirenti. La comunicazione si rivolge consapevolmente a una comunità (a chi già vi appartiene o medita di farne parte). L’impegno teso a fidelizzare piuttosto che sedurre, impone al brand una dose non esigua di rigore, serietà e sincerità nel proporsi. Anche per questo i richiami al prodotto sono ridotti all’essenziale, giustificati da un particolare punto dell’intreccio narrativo che comunque si avverte essere rivolto a un pubblico avvertito e competente oltre che sensibile nei riguardi dell’impatto ambientale che ogni pratica umana ha sul pianeta.

Nel testo citato come esempio, con modalità pressoché imparziali, vengono proposti alcuni precetti e rudimenti inerenti la “pratica” in questione. A partire dalla modalità di guida – distinta in “regolare” e “goofy” in base al fatto che “piede forte” utilizzato sia destro o sinistro –, il dialogo col lettore passa a focalizzare alcune massime e richiami ritenuti essenziali per godere appieno i vantaggi dello skate dotato di motore elettrico, ovvero: a) essere consapevoli del proprio centro di gravità; b) premurarsi di «accelerare dolcemente»; c) «non cercare di fare curve troppo strette all’inizio»; d) «mantenere la visibilità» in quanto «i riders principianti hanno la tendenza a guardare in basso verso i loro piedi quando girano»; e) cercare di indossare caschi e «ulteriori protezioni, come guanti e gomitiere»; f) accertarsi di aver ben compreso «come funziona il controller prima ancora di salire»; g) «evitare di guidare nel traffico vero e proprio», privilegiando «invece le piste ciclabili»; h) utilizzare «le luci di notte»; i) aver cura della batteria mantenendola carica; l) cimentarsi nella guida su terreni diversi (perché «terreni diversi richiedono stili di guida diversi»); m) usare i freni delicatamente avendo cura di anticipare la fermata. Il testo descrive inoltre nel dettaglio la «posizione standard» e accenna a ulteriori posizioni di guida come la «posizione di spinta» (molto utile «se la vostra batteria muore») e quelle più estreme, per guidatori esperti, come la «posizione di carving», la Speed stance e la Freestyle stance.

A fronte delle circa 13.000 battute di cui è composto il testo di Ralph Cope, le citazioni di Linky (opportunamente inserite in alcuni dei punti compendiati più sopra) si riducono in pratica a tre sole caratteristiche in cui il prodotto vanta palesemente invidiabili caratteristiche di performatività: 1) l’instradamento alla postura adeguata alla guida perché, con la tavola divisa nettamente in due distinti elementi, il fruitore è indotto con più immediatezza a scoprire «esattamente dove mettere i piedi»; 2) la riconnotazione in termini di positivo risparmio energetico dell’uso dei freni perché, col sistema di “frenata rigenerativa” in dotazione su Linky, «quando il motore funziona al contrario, rimette la carica nella batteria»; 3) la capacità del motore di «gestire colline con una pendenza di 12 gradi».

Nel caso di Linky, quindi, l’esigenza base posta di fronte a ogni progetto rivoluzionario – creare il proprio consumatore – è certo in gran parte svolta dalla campagna di fidelizzazione attuata sul (e dal) diario aziendale tramite continui richiami sia ai valori condivisi dalla community – sostenibilità produttiva, territorialità di progetto e materie, accessibilità ambientale –, sia alla progressione dell’iter progettuale delle versioni aggiornate del prodotto – il Linky 2.0 – contribuendo a ingenerare interesse e aspettative nei riguardi delle continue migliorie apportate al prodotto da parte di un’equipe che agli occhi degli utenti e dei frequentatori web aspira a proporsi e conformarsi, settimana dopo settimana, non tanto come entità autonoma con obiettivi economici individuali, bensì come gruppo di lavoro fondamentalmente al servizio del consumatore. Ossia di una nicchia ben delineata di consumatori che con gli autori condivide orizzonti di senso, comportamenti, principi e speranze.

Come segnala giustamente Mario Morcellini «Il consumatore di oggi cerca una sorta di risarcimento affettivo (non vuole essere più considerato un numero), e poi ha bisogno di appropriarsi di un ambiente, di condividerlo. [...] Non sono gli oggetti in sè a sedurci, quanto piuttosto quell’aura di arte, parole e marketing che sapientemente li avvolge. Il design diventa una progettazione non di prodotti, ma di comportamenti che si generano al contatto con la merce; si immedesima nelle abitudini del consumatore tipo del prodotto definendone i percorsi mentali e tenendolo, al tempo stesso, lontano dal feticismo massificante dell’oggetto. Il tutto attraverso un percorso che va dall’acquisto che produce valore come solo atto degno di autenticità, passando per un approccio latino al design dell’esperienza e arrivando all’emblematicità del punto di vendita»[07].

Tutto ciò illumina sulle peculiari sfaccettature che il termine “progetto” manifesta e acquisisce con modalità sempre più plateali in moltissimi settori produttivi. Sebbene la quadripartizione proposta negli anni 80 da Renato De Fusco per descrivere oggettivamente il fenomeno design – Progetto, Produzione, Distribuzione, Consumo – sia tuttora valida, è di tutta evidenza che l’«attitudine a progettare» si stia ormai rivelando nel suo connotato più spesso misconosciuto di “qualità condivisa”, ovvero di patrimonio comune a tutti gli uomini, ovvero di come sia ragionevolmente «possibile individuare un progetto di produzione a monte di ogni organica impresa produttiva, così come si possa conseguentemente parlare di progetto di distribuzione e come pure si debba cominciare a considerare essenziale la formulazione di progetti di consumo individuali da intendersi come veri e propri preventivi dei bisogni, dei desideri, delle pulsioni e delle emozioni di ciascuno»[08]. Inoltre occorre prendere atto di una crescente permeabilità fra le stesse macroaree di competenza. Fatto verificabile con immediatezza tenendo presente come attualmente si verifichi spesso la compresenza dei medesimi attori in più di un ambito della succitata quadripartizione.

La presenza, ad esempio, della figura “ibrida” del progettista/produttore non è certo nuova e specifica di questo secolo. Figure come Ferdinando Innocenti, Giuseppe Bambi, Elio Martinelli, Giotto Bizzarrini, Paolo Parigi, Paolo Gensini, Giuliano Mazzuoli, Alessandro Tatini, sono da tempo note ai lettori di MuDeTo. La caparbietà espressa nel “credere” in certi aspetti di rischio e di sfida imprenditoriale rilevabili in alcuni prodotti innovativi è spesso una delle ragioni che conducono a questa commistione di ruoli. Nel caso di Linky, non è dato sapere se, nelle prime fasi ideative, Paolo Pipponzi abbia mai seriamente considerato l’ipotesi di vestire i panni del solo responsabile di progetto, ma è abbastanza evidente che – vuoi per le opportunità aggregative della domanda garantite in questo secolo dalle diverse forme di connessione web, vuoi per il proprio retroterra formativo e professionale che, stante la complessità degli oggetti, prevede spesso collaborazioni con team allargati a più livelli di competenze, vuoi per la passione riversata nei confronti del prodotto (sorta di epitome valoriale del progettista stesso) –, assai presto la sua attività ha assunto nuance organizzative, coordinative, sperimentali, comunicative (spesso è ritratto sia in foto sia in video a bordo del mezzo) che portano a connotare il suo operato su e con Linky in termini quasi rinascimentali.

Come l’artista del XV secolo, Pipponzi ha ormai creato un suo laboratorio nel territorio – certo in questo coadiuvato dall’onnipresente Cristiano Nardi – impegnato a «riportare la produzione» di un «mezzo sostenibile nel cuore del distretto solitamente famoso per la moda»; un prodotto di «design iper tecnologico» che «tranne le batterie» è ormai «completamente made in Marche, per non dire fermano»[09]. Un territorio che ama e che tutti i componenti di quell’eccellente laboratorio di artigianato evoluto che è oggi Linky Innovation intende continuare a frequentare e preservare. Non stupisce, pertanto che, quasi in controtendenza rispetto ai propositi esibiti originariamente – espressamente rivolti a proporre soluzioni in ambito urbano e metropolitano –, la comunicazione testuale e iconografica che si fa interprete dell’evoluzione progettuale e produttiva rilevabile nel successivo modello Linky 2.0 venga in parte rimodulata per illustrare un’esperienza della mobilità individuale garantita dal veicolo sempre più linearmente compatibile con le esigenze ricreative (di risarcimento affettivo) del loisir e della vita en plein air. Suggestioni e aneliti che traspaiono sempre più di frequente sia nella spinta emozionale ricercata nelle inquadrature ravvicinate del longboard su terreni boschivi ricoperti da foglie autunnali (dove il primo piano è catturato dalle confortevolmente aggressive ruote “scolpite” studiate per affrontare al meglio praticamente qualsiasi terreno) e lungo le rive silenti di spiagge solitarie, sia nelle diverse “letture” proposte dai vari media nel corso di quest’anno (2024). Non è un caso che Matthew Burgos, sulle pagine di “Designboom” si soffermi proprio sulla caratura “onnivora” del mezzo che, giunto alla maturità della sua versione 2.0, manifesta apertamente le invidiabili doti delle «ruote all-terrain con proprietà anti-aquaplaning» pensate «per garantire aderenza indipendentemente dalle condizioni stradali». Ruote che – oltre a poter «essere personalizzate, aggiungendo un tocco personale all’esperienza del rider» – anche in forza del loro «diametro di 210,5 mm, [...] consentono al longboard di percorrere strade sconnesse» e grazie alla «superficie dentellata e i parafanghi integrati possono gestire acqua e ghiaia senza problemi»[10].

L’approccio ingegneristico, costitutivamente tecnico non manca mai di palesarsi come un marchio caratteristico di Linky 2.0, ma si avverte una più chiara e ricorrente tensione romantica – quasi struggente considerando la bellezza dell’ambiente marchigiano – molto meno contrastata dall’aspetto serio e rigoroso solo pochi anni fa ritenuto indispensabile per offrire sostegno e persuasività all’innovazione pura del prodotto. Complice, forse, la presenza – questa volta fin dagli esordi del modello – dell’apporto grafico-progettuale di Pierantoni che proponendo schizzi di nuove versioni della texture del deck volte esplicitamente ad aumentarne l’aderenza (grip) – e implicitamente studiate al fine di rendere più affusolata e filante la percezione del veicolo – comincia a inciderne la semplificata e per certi versi monotonale linearità ingegneristica. Non si tratta sempre di proposte accolte ed effettivamente confermate nella proposta finale di serie, tuttavia testimoniano – sia in fase di studio, sia in fase di definizione finale – una sotterranea vitalità di “opinioni a confronto” che sembra di buon auspicio per un futuro non inerziale del prodotto e dell’azienda nei prossimi anni.

Negli schizzi e nei prototipi di studio ritroviamo anche efficaci punti di approdo più tardi confermati, almeno in parte, come il disegno del track delle ruote all terrain e del collegamento tra queste e la struttura collassabile. Una emozionalità più decisa si rimarca e perdura anche nell’ipotesi di nuova definizione del logo del brand che, rinnovato e reso più “maturo” e deciso col font adottato, non risulta più relegato in posizione quasi didascalica sul margine parallelo all’asse longitudinale del mezzo, ma costeggia – quasi a sottolinearne la presenza – il bordo del piano ligneo in cui la nuova profilazione del deck appare più pronunciata. Come accade nella variante carbon, il disegno della tavola, in gran parte riconfermato, è reso meno “scolastico” inserendo un sinuoso e snellente flesso nella ribadita scansione “linea retta+smussatura curvilinea”, che caratterizza il contorno la prima versione di Linky. Ancora frutto dello studio di Pierantoni l’ipotesi di creare, a fianco della levetta di blocco del veicolo, un alveolo polifunzione ambivalentemente utilizzabile sia come elemento studiato per facilitare il trasporto del mezzo sia come punto di aggangio per assicurarne i momentanei depositi o soste non controllate con un eventuale moschettone o lucchetto. Merita infine un cenno non marginale il lavoro del designer bolognese nei riguardi della definizione del telecomando che, nella versione datane da Pierantoni ha l’indubbio merito di “evocare” nella plastica conformazione della leva di comando la medesima sagoma a suo tempo definita per il fermaglio di blocco dello skate una volta compattato, creando volutamente un’eco formale – verrebbe quasi da dire un link plastico – tra parte “comandata” e parte “comandante”.

In generale – e in senso più tecnico-ancillare – la versione Linky 2.0 presenta numerosi miglioramenti rispetto al modello precedente. I principali aggiornamenti che rendono il veicolo più potente, efficiente e pratico possono essere condensati nei sei punti che seguono:

1. Motori. Linky 2.0 è equipaggiato con due motori da 750W ciascuno, che forniscono una maggiore accelerazione e una velocità massima di 42 km/h, rispetto ai motori meno potenti del precedente modello.
2. Sistema di piegatura. Al fine di semplificare compattamento e trasporto della tavola, il meccanismo di piegatura è stato perfezionato, incrementando il già rilevante appeal del mezzo sul target dei pendolari.
3. PCB e sistema di controllo. Il nuovo PCB (circuito stampato) garantisce una gestione più efficiente dell'energia, migliorando la sicurezza e il controllo, soprattutto durante accelerazioni e frenate.
4. Batteria e autonomia. La batteria del Linky 2.0 è disponibile in due versioni: a) da 99Wh (per viaggi aerei); b) da 160Wh che fornisce una maggiore autonomia rispetto al precedente modello. Questa opzione consente di scegliere fra un modello più leggero o una versione con più autonomia.
5. Resistenza a polvere e acqua. Il comparto elettronico è stato riprogettato per proteggere meglio da infiltrazioni di acqua e polvere, garantendo una maggiore durabilità e affidabilità in diverse condizioni climatiche.
6. Design del telecomando e connessione Bluetooth 5.2. Il telecomando è stato ridisegnato per essere più ergonomico e intuitivo, mentre la nuova connessione Bluetooth 5.2 assicura una comunicazione più stabile e rapida rispetto al modello precedente, migliorando di conseguenza l’esperienza di guida.

Come anticipato gli aggiornamenti elencati rendono Linky 2.0 una scelta oltremodo performante, versatile nonché particolarmente adatta per gli spostamenti urbani e l'uso quotidiano. Ma quel che in questa sede preme segnalare è che, in ultima analisi, la sua avventura progettuale e produttiva sia da considerare e valutare tenendo conto dei tratti paradossali della sfida ambiziosa che ne sta all’origine ed è riassumibile come segue: acquisire (o meglio, ri-acquisire) una biunivoca e positiva relazione (perduta) con i luoghi della natura proprio tramite la tecnologia ingegneristica e le prodezze high-tech provenienti dal settore automotive. Confidando, quindi, che il “veleno” della tecnica sia tuttora in grado di palesare una modalità inversa e non conflittuale nei riguardi della salute del pianeta. Che dunque, in quanto “tecnica”, la sperimentazione pratica e strumentale delle nuove materie – e del loro buon uso – sia tuttora in grado di far riaffiorare le bivalenti radici dell'antica τέχνη (téchne), ossia di “arte”, nel senso di “perizia”, “saper fare e operare”. Consentendole, cioè, di riacquisire i tratti originari e oggi misconosciuti del φάρμακον (pharmakon) i cui significati principali erano quelli, diametralmente opposti (e compresenti), di “cura” e “veleno”.

Puntando sulle spesso discreditate qualità del comando – il talismanico potere da Deus Ex Machina proprio del remote control del veicolo – Linky offre certo un tributo alla «gestualità universale del controllo»[11] – ma il fine di tale acquiescenza ne è quasi la nemesi: l’elisione dello sforzo fisico corporale è infatti funzionale a un risarcimento sia ambientale che spirituale. Pensato come congegno ideato per vivere al meglio nella metropoli antropizzata, Linky può così divenire (o almeno ha modo di proporsi altrettanto plausibilmente come) un escamotage per rivivere l’eccitante contemplazione della natura. In altri termini la «gestualità universale del controllo» garantita dal longboard fornisce l'occasione per “fare anima”, ossia per prendere in esame, e far proprio, un senso esperienziale diametralmente opposto: quello provato da ognuno di noi una volta al cospetto di ambienti incontaminati rimasti pressoché intatti nel tempo. Al fondo di Linky stanno dunque un’illusione e una sfida che meritano di essere segnalate e sostenute non foss’altro che per la fecondità degli orizzonti potenzialmente dischiusi in questa impresa progettuale e di vita. Un meritorio impegno i cui esiti occorre sperare non vengano annichiliti o, peggio, resi irrilevanti dall’attuale – ormai petulante e acefala (per esser benevoli) – politica ammistrativa del territorio e della mobilità. Quella, per intenderci, che di recente (novembre 2024) ha ritenuto saggio e opportuno virare in senso restrittivo proprio le norme del Codice Stradale nazionale relative alla tipologia di mezzi di trasporto elettrico individuale di cui anche Linky fa parte.


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