di: Umberto Rovelli 

Umberto Rovelli (Bologna, 1962). Laureato in Architettura, dal 1996 al 2018 è socio di Blue Klein, web agency impegnata nel campo multimediale per la promozione della cultura del progetto su Internet. Dal 2005 dirige la rivista IdeaMagazine.net. Dal 2008 al 2016 cura gli aggiornamenti del web ADI Toscana progettato da Blue Klein. Socio ADI dal 2010 al 2015, è curatore dei volumi MuDeTo Collection I.-V. (MuDeTo, Firenze 2014-'21), Mauro Pasquinelli Designer (Bandecchi&Vivaldi, Pontedera 2013) e Interviste sul Progetto (Franco Angeli, Milano 2011). Ha collaborato con le riviste “Op. cit.”, “Juliet Design Magazine”, “Paesaggio Urbano”, “ReportBio”, “Firenze Spettacolo”. Ha pubblicato contributi in: Adriano Piazzesi (Pontecorboli, Firenze 2016); Vincenzo Missanelli. Opere con un'antologia critica (Bandecchi&Vivaldi, Pontedera 2015); Antonio Possenti un lungo viaggio (Pacini Fazzi, Lucca 2013); Adriano Piazzesi. Arte nel silenzio (Polistampa, Firenze 2012); Massimo Mariani. Progetti 1980 - 2005 (Verba Volant, London 2005); Labyrinthos (Alinea, Firenze 1994). [x]

A cavallo fra storia e leggenda l’avvincente caso della nascita di Metafora #1 – insieme a quella della ventennale avventura del marchio Casigliani avviatasi a partire da questo progetto – rappresenta un episodio esemplare, e a un tempo cardine, della parabola storica del progetto industriale in ambito lapideo del secondo dopoguerra. In particolare per il successo ottenuto fin dalla prima presentazione del tavolo (Macef autunnale e, immediatamente dopo, Salone del Mobile di Milano 1979), ma anche perché, sul piano storico, l’oggetto riveste un interesse sia in quanto tale sia come epifenomeno direttamente riconducibile a un pregresso percorso, ormai poco più che carsico, che riguarda il territorio regionale, ovvero a: «un importante dibattito teorico-critico sulle possibilità di rinnovamento del design litico che porta rilevanti ricadute in termini produttivi e commerciali»[01] nell’area apuano-versiliese (Versilia e Costa Apuana), e in particolare a Petrasanta, che si può far risalire alla metà degli anni 60.

[01] Davide Turrini, Un secolo di design litico in Italia. Ricostruire il contesto del progetto contemporaneo, “Architetture di pietra”, 31 ottobre 2013 (www.architetturadipietra.it/wp/?p=6026).

Come segnala Costantino Ceccanti, «l’impiego del marmo per la produzione di elementi d’arredo ebbe in Italia, già a partire dagli anni 30 del Novecento, uno sviluppo deciso, certamente superiore a quanto avvenne negli altri paesi europei. Ciò accadde fondamentalmente a causa delle politiche autarchiche del Fascismo, tese a valorizzare i materiali di produzione nazionale», ma anche, ovviamente, «per l’amplissima disponibilità sul territorio italiano, dove spiccava il bacino di estrazione apuo-versiliese. Tuttavia, fu con gli anni 60 che avvenne il decollo di diverse realtà toscane, tutte localizzate tra le province di Massa-Carrara e di Lucca, che progettavano e producevano arredi e oggetti in marmo»[02].

[02] Costantino Ceccanti, Il design litico protagonista della mostra Creativa Produzione alla Fondazione Ragghianti, “Architetture di pietra”, 22 settembre 2015 (www.architetturadipietra.it/wp/?p=7122).

Nell’area considerata, come nota giustamente Davide Turrini, risulta «determinante [...] l’esperienza culturale e operativa di Officina, laboratorio nato non a caso in Toscana a Pietrasanta, e sviluppato in una prospettiva di contatti internazionali. In questa realtà il lavoro di artisti, designer e galleristi si intreccia con le storie personali di Erminio Cidonio – a capo della sede versiliese della multinazionale dei lapidei Henraux per tutti gli anni 60 – e del lucchese Pier Carlo Santini, nel ruolo chiave di critico militante che dedica un’attenzione specifica al tema del design litico valorizzandolo e promuovendolo»[03].

[03] Davide Turrini, L’arcano del marmo. Peculiarità toscana, identità del design italiano, in Elisabetta Trincherini, Davide Turrini (a cura di), Creativa Produzione. La Toscana e il design italiano 1950-1990, Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Lucca 2015.

L’attività di Cidonio in quest’ambito è fondamentale. Egli, infatti riesce in breve ad attivare «una sintesi tra spirito imprenditoriale e sperimentazione progettuale» invitando «rappresentanti di ogni tendenza creativa» a operare «liberamente tra artigianato e industria, impiegando tecnologie di lavorazione inusuali con l’obiettivo di rinnovare e riqualificare l’oggetto e l’arredo in marmo»[04].

[04] Davide Turrini, L’arcano del marmo. Peculiarità toscana, identità del design italiano, in Elisabetta Trincherini, Davide Turrini (a cura di), Creativa Produzione. La Toscana e il design italiano 1950-1990, Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Lucca 2015.

Nel contesto così delineato dall’attività sperimentale di Officina – che fin dal 1967 coinvolge autori come «Gino Cosentino, Lorenzo Guerrini, Franco Libertucci [...], Gastone Novelli, Alicia Penalba e Giò Pomodoro» [05] nella produzione di «camini, tavoli, lampade, vasi, oggetti d’uso e gioielli» –, «prendono avvio singoli percorsi progettuali, più o meno fertili, ma in ogni caso di importantissimo valore, come quelli di Angelo Mangiarotti, Mario Bellini, dei Castiglioni e di Tobia Scarpa, che portano a consistenti risultati in termini di innovazione formale e tecnologica del prodotto in pietra»[06].

[05] Davide Turrini, L’arcano del marmo. Peculiarità toscana, identità del design italiano, in Elisabetta Trincherini, Davide Turrini (a cura di), Creativa Produzione. La Toscana e il design italiano 1950-1990, Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Lucca 2015.

[06] Davide Turrini, L’arcano del marmo. Peculiarità toscana, identità del design italiano, in Elisabetta Trincherini, Davide Turrini (a cura di), Creativa Produzione. La Toscana e il design italiano 1950-1990, Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Lucca 2015.

Segnatamente nel decennio successivo, tali «percorsi, più o meno fecondi ma comunque significativi», finiranno col sostanziarsi «in singoli pezzi prodotti da importanti editori dell’arredamento italiano, come B&B Italia, Cassina e Simon International, o in intere linee per marchi dedicati al design del marmo che nascono ancora una volta in Toscana. L’attività creativa si coagula infatti in larga parte attorno ad imprenditori illuminati, che impiantano le loro aziende tra Pisa, Massa e Carrara, cogliendo il testimone di Erminio Cidonio e passando dalla fase sperimentale a quella produttiva. Si tratta di figure come Nilo Pasini che», nel 1973, rileva da Carlo Orlandi «Fucina, o Voltero Tonlorenzi con la sua Up & Up, o ancora Maurizio Casigliani con l’omonima azienda»[07] che, come accennato, comincia la sua attività nel 1979.

[07] Davide Turrini, L’arcano del marmo. Peculiarità toscana, identità del design italiano, in Elisabetta Trincherini, Davide Turrini (a cura di), Creativa Produzione. La Toscana e il design italiano 1950-1990, Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Lucca 2015.

Pur ricondotto al suo contesto e considerando le esperienze imprenditoriali e progettuali degli oltre dieci anni che ne precedono la nascita, l’evento di Metafora #1 non perde affatto peso e valore. Semmai questi prequel sul territorio aiutano a meglio comprendere e soppesare sia l’interesse di Casigliani nei riguardi dell’opera dei Vignelli (che per sua stessa ammissione risale ai primi anni 70) sia la peculiare nota distintiva di tutta la produzione Casigliani: «omogenea e fortemente connotata, minimalista nelle forme rigorose ma ricca e stimolante nelle qualità tattili e cromatiche dei materiali»[08].

[08] Davide Turrini, L’arcano del marmo. Peculiarità toscana, identità del design italiano, in Elisabetta Trincherini, Davide Turrini (a cura di), Creativa Produzione. La Toscana e il design italiano 1950-1990, Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Lucca 2015.

Una corporate identity assai definita e riconoscibile, nonostante l’addensarsi delle produzioni concorrenti nei decenni successivi, che è “raccontata” a un pubblico emergente in virtù di un impegno finanziario senza precedenti, come si può apprezzare dall’attenzione che il marchio Casigliani dedica «al mondo dell’immagine e della comunicazione» sia, comprensibilmente, agli albori della produzione, sia in seguito. Una cura costante «che emerge dalla scelta di identificare i prodotti con nomi originali ed evocativi, dal precoce e sapiente utilizzo del medium audiovisivo a scopi commerciali, dalle campagne pubblicitarie affidate a importanti fotografi come Gabriele Basilico o Aldo Ballo e, infine, dai costanti riferimenti all’universo delle arti visive. In proposito è emblematica la copertina di “Casa Vogue” del novembre 1979 dove il tavolo Metafora #1 dei Vignelli è fotografato da Ballo accanto a un dipinto di Giorgio De Chirico in un’evidente assonanza metafisica»[09].

[09] Davide Turrini, L’arcano del marmo. Peculiarità toscana, identità del design italiano, in Elisabetta Trincherini, Davide Turrini (a cura di), Creativa Produzione. La Toscana e il design italiano 1950-1990, Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Lucca 2015.

Sulla vicenda che ha portato all’exploit dell’esordiente Casigliani, è certo pertinente il racconto fattone da Massimo Vignelli. Com’è noto, la sintetica versione della fulminea messa in produzione di Metafora #1 – proposta nel volume Vignelli: From A to Z (2007) – è la seguente: «Alla fine degli anni 70, un amico di Pisa, Maurizio Casigliani, viene a trovarci a New York, col proposito d’invitarci a disegnare dei mobili in marmo, anche perché, vivendo vicino a Carrara, il marmo gli è estremamente accessibile. Quindi, per iniziare, ho disegnato una sfera, un cubo, una piramide e un cilindro, le quattro fondamentali forme euclidee. Poi gli ho messo una lastra di vetro sopra e l’ho chiamato tavolino da caffè. Era venerdì; nel pomeriggio Maurizio è partito per Pisa. Lunedì mattina mi chiama dicendomi che il tavolino è fantastico. “Certo”, gli dico scettico. “No”, risponde, “ce l’ho davanti”. Al che gli dico: “Non ci credo”. E lui: “Ora ti spiego. Sabato sono andato a Carrara, ho chiesto all’artigiano del laboratorio del marmo di fare queste quattro forme. Poi sono andato da un amico che vende lastre di vetro e gli ho fatto tagliare un pezzo di un metro quadrato. Lunedì mattina ho portato tutto al mio amico fotografo, e mentre ero lì ho chiamato la rivista “Casa Vogue”. Ho spiegato loro che avevo un nuovo tavolino da caffè, l’ho descritto, ho detto che era stato disegnato dai Vignelli e loro hanno detto ‘Fantastico! Lo metteremo sulla copertina del mese prossimo!’”. E così è stato. Questo era il divertimento di progettare per le aziende italiane di allora – niente marketing; nessun problema di linea di produzione. Solo in e out!»[10].

[10] Massimo Vignelli, Lella Vignelli (ed. Jannelle McCulloch), Vignelli: From A to Z, The Images Publishing Group Pty Ltd., Mulgrave, Victoria (Australia), 2007. Questo il brano originale: «In the late 1970s, a friend from Pisa, Maurizio Casigliani, came to visit us in New York, with the idea of inviting us to design some marble furniture, since Carrara is near his home and its marble is very accessible. So, to start, I drew a sphere, a cube, a pyramid, and a cylinder, the four basic Euclidean shapes. I placed a sheet of glass on top of them and called it a coffee table. It was Friday; in the afternoon he left for Pisa. Monday morning Casigliani called and told me the coffe table looked great. “Sure”, I said skeptically. “No”, he said. “I have it in front of me”. I said, “I don’t believe it”. “I’ll explain it to you”, he said. “Saturday I went to Carrara, told the marble guy to make these four shapes. Then I went to see a friend who sells glass sheets and I had him cut a piece one meter square. Then on Monday morning I brought everything to my friend the photographer, and while I was there I called the magazine CasaVogue. I explained to them that I had a new coffe table, described it, said it was designed by the Vignellis, and they said ‘Great! We’ll put it on next month’s cover!’”. And so it was. This was the fun of designing for Italian companies back then – no marketing; no production line problems. Just in and out!».

Alcune inesattezze nel resoconto di Vignelli circa la febbrile tempistica degli eventi – il prodotto viene “visto” materialmente da Isa Vercelloni nel corso del Macef di settembre ed è più dilatato il lasso intercorrente tra prototipo e pubblicazione su “Casa Vogue” – non cambia molto la sostanza di un processo ideativo, produttivo e comunicativo che pur rasentando l’improbabile è essenzialmente corretto [11]. E, come anticipato, è anche l’ormai acquisita consistenza tecnico-artistica e produttiva del contesto pietrasantino a consentire a Maurizio Casigliani – la cui fede (o “mania” socratica) nel progetto è certo altrettanto fondamentale per la riuscita dell’impresa – un’accelerazione dei tempi realizzativi così decisa e vincente.

[11] In questo caso la contrazione narrativa del corso degli eventi da parte di Vignelli probabilmente è imputabile, più che a un errore di memoria, al tentativo di rafforzare la coerenza e i punti chiave della filosofia progettuale degli autori esposta nel volume.

In merito al progetto dei Vignelli, Pier Carlo Santini non esita a segnalare che «il gesto progettuale [...] è molto semplice e potrebbe sembrare perfino riduttivo: queste forme non le hanno certo inventate i due autori. Ma il contesto, invece, è inedito»[12]. Fatte, cioè, le debite proporzioni con Metafora #1 siamo di fronte a una “dislocazione” di ascendenza duchampiana, anche se di natura affatto antitetica, riconducibile, cioè, a una sorta di contrappasso ideologico a quel che sottende il ready-made. Qui sono, infatti, le forme cardinali dell’arte e della geometria solida a entrare quasi senza intermediazioni di gusto nel campo minato della tipologia mercantile piuttosto che l’inverso. Ma anche questo capovolgimento di fronte si configura per il mercato di riferimento uno scarto straniante e perturbante rispetto al mainstream progettuale al pari di quello che vede Henri-Robert-Marcel Duchamp esporre in galleria un orinatoio rovesciato di 90° intitolandolo “Fontana”.

[12] Pier Carlo Santini, Nota su Metafora 1, testo introduttivo al catalogo Casigliani, Casigliani Ed., Marina di Pisa - Pisa 1979 (www.casigliani.com/about-us.html | vedi anche: sezione Testimonianze più sotto in questa stessa pagina).

A riprova del fatto che Vignelli sia perfettamente consapevole di tutto ciò, basta soffermarsi sul punto in cui, nel brano più sopra citato, afferma: «ho messo una lastra di vetro sopra e l’ho chiamato tavolino da caffè (I placed a sheet of glass on top of them and called it a coffee table)». Strategia ben circostanziata anche da Santini quando afferma che «il ricorso a quelle forme, che sono patrimonio ancestrale della memoria di tutti, assicura un esteso e facile consenso, nonché, condizione che Casigliani ritiene irrinunciabile, una certa immunità ai pericoli della rapida obsolescenza»[13]. Siamo quindi in un ambito platealmente “fluido” e per certi versi ingannevolmente speculare/speculativo dove il ricorso al rigore formale desunto dai persistenti signa della storia universale – e tuttora unanimemente condivisi – non è che un mezzo (o più propriamente un escamotage) teso al raggiungimento di un fine molto più prosaico: garantire al nuovo prodotto l’opportunità di meglio affrontare la volatile realtà del mercato degli ormai incipienti anni 80.

[13] Pier Carlo Santini, Nota su Metafora 1, testo introduttivo al catalogo Casigliani, Casigliani Ed., Marina di Pisa - Pisa 1979 (www.casigliani.com/about-us.html | vedi anche: sezione Testimonianze più sotto in questa stessa pagina).

Quello dischiuso da e con Metafora #1 è così un mundus inversus, un mondo “alla rovescia”, o meglio ancora un “mondo attraverso” che, come quello carrolliano, piuttosto che rifugiarsi nell’assertività dei dictat formali evocati, lascia spazio e margine al disserrarsi di stupori e paradossi indecidibili. Quest’ultimi – attivati in primo luogo dalla trasparenza del piano – sono rilevabili in particolare nei disegni che ritraggono il tavolo dall’alto, laddove, cioè, le geometrie dei solidi posti al suolo sembrano semplicemente “inserite in una cornice”, colte attraverso un diaframma: appunto la collocazione ad hoc che consente a un oggetto di aspirare a divenire “altro”, ossia divenire metafora.

Ancora riguardo alla specifica ricerca formale che ha guidato i Vignelli e Casigliani nella realizzazione di Metafora #1, Santini sottolinea che: «Se è vero che il marmo è materia durevole per antonomasia, sembra opportuno esaltare questa sua proprietà con soluzioni non troppo precarie sul piano del gusto, poi presto incompatibili nel consumarsi rapido di ogni parvenza e identità. Non si può essere fuori del tempo, ma nel tempo si può stare in tanti modi. Quella di Casigliani è dunque una scelta cosciente, che ha una sua logica stringente e precisa»[14].

[14] Pier Carlo Santini, Nota su Metafora 1, testo introduttivo al catalogo Casigliani, 1979 (www.casigliani.com/about-us.html | vedi anche: sezione Testimonianze più sotto in questa stessa pagina).

Soprattutto le due ultime frasi paiono illuminanti. Il richiamo al celebre passo hegeliano («Il singolo può ben gonfiarsi quanto vuole, ma non potrà mai uscire dal proprio tempo, come non può uscire dalla propria pelle»[15]) è già di per sé un’ammissione d’impotenza. Sì, ma rispetto a cosa? A quale limite questo anelito di longue durée – così straordinariamente affine ai materiali lapidei e al marmo in particolare – non può sottrarsi?

[15] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari 2013 (Berlin 1821).

Forse a quel «demone del mutamento-per-il-mutamento» che per Paul Valery «è il vero padre di molte cose». Come segnala lo scrittore francese, se è lui a cantare «di secolo in secolo la sua grande aria del “richiamo alla natura,”», è ancora lui che «appena si è veduta radunare intorno un po’ di folla, [...] scappa, si trasforma [...]. Insinua [...] che la natura è anch’essa convenzione [...]. Suggerisce che non ci sono oggetti, che bisogna vietarsi d’esprimere altra cosa che non sia la sensibilità della rètina». Ed è ancora lo stesso demone che, «non appena laboriosamente ricostruita la luce sulle tele, sùbito si lagna che essa mangia tutte le forme, che in quel mondo cromatico non ci sono più che fantasmi [...]. Allora da non so quale deposito, sì profondo che i più vecchi vecchiumi uscendone risultano novità, tira fuori una sfera, un cono e un cilindro; e finalmente un cubo, che teneva in serbo per lasciar la bocca buona. Esso propone di costruire tutto con quei solidi, o trastulli di bambini geometri. L’universo [...] diventa esprimibile in poliedri e in corpi rotondi», ma con quali risultati? «Ne risultano dei nudi tremendi. Di certo l’amore fugge quei blocchi, i cui spigoli lo spaventano»[16].

[16] Paul Valéry, Degas, danza, disegno, corsivi nostri, Feltrinelli, Milano 1980 (Gallimard, Paris 1938).

Dunque la “logica stringente e precisa” che Casigliani e i Vignelli impongono al loro “stare nel tempo” è condannata a far fuggire l’amore nei loro oggetti? Per non evadere la risposta occorre probabilmente fare una prima distinzione: questo rischio, latente ma concreto, si manifesta peculiarmente in determinate tipologie di prodotto, ossia quelle che coinvolgono estensivamente il corpo (sia sotto il profilo della quantità di epidermide implicata, sia per quel che concerne la durata del rapporto oggetto/fruitore). Nel caso dei Vignelli esiste almeno una testimonianza a favore di questa ipotesi di gap “erotico”, riferita al progetto Saratoga prodotto da Poltronova (1964). Si tratta di un dialogo (già ricordato nella sezione Testimonianze della pagina MuDeTo dedicata al sistema di sedute) tratto dal film di Peter Yates, John e Mary (1969). I due giovani amanti (interpretati da Mia Farrow e Dustin Hoffman) si sono appena seduti sul divano che, com'è peraltro previsto e raccomandato dagli autori, non sosta in un angolo della stanza, bensì troneggia al centro fra le diverse aree della zona giorno. «Tu cosa fai?», chiede Mary al giovane. «Disegno mobili», risponde John. «Per caso hai disegnato anche questo?», prosegue Mary. «Non ti piace?», domanda John. «Eh, potrebbe essere più comodo», replica lapidariamente Mary. Un breve inciso, certo, ma assai rilevatore nonché pertinente circa la più sopra evocata relazione tormentata tra “blocchi” e amore spaventato da suoi “spigoli”[17].

[17] Pensato come elemento d'arredo funzionale ma non troppo confortevole che, in nome di ideali estetico-geometrici, rinuncia alle lusinghe della più immediata “ancillarità” epicurea, Saratoga è un progetto che implicitamente si rivolge ad ambienti – ibridi, indivisi, del tutto o anche solo parzialmente open space –, che negli anni 60 non sono nemmeno così abituali e frequenti in Italia come in America. Saratoga è infatti, per molti versi, un progetto made in USA (i progettisti si stabiliranno definitivamente a New York nel 1965) che, per essere “adottato”, sembra pretendere spazi dimensionalmente ampi e plurifunzionali (coinvolgendo di conseguenza target borghesi medio-alti).

In merito ai rischi d'incomprensione fra progettisti e fruitore è lo stesso Vignelli a segnalare la preoccupazione degli autori nel testo elaborato come brochure di presentazione di Metafora Coffe Table suddiviso tematicamente in: Semantica, Sintattica e Pragmatica. In quest’ultima sezione – che a dispetto del titolo è più una sorta di vademecum stilistico autorale che, al pari dell’ivi citata “ricerca di chiarezza”, si potrebbe ricondurre più all’alveo sintattico che a quello pragmatico – Vignelli esplicita recisamente la centralità del nesso che lega progettista e utente finale, ossia, in altri termini, l’idea del singolo autore, le consuetudini della massa e le attese del mercato: «Qualunque cosa facciamo, se non è capìta, non riesce a comunicare ed è uno sforzo inutile. Progettiamo cose che pensiamo siano semanticamente corrette e sintatticamente coerenti ma se, al momento della fruizione, nessuno capisce il risultato, o il significato di tutto questo sforzo, l’intero lavoro è inutile»[18].

[18] Vignelli Associates, Metafora Coffe Table, Casigliani Ed., Marina di Pisa - Pisa 1981 ca.

Inoltre, per riuscire efficace e duratura, una qualsiasi innovazione industriale non richiede per sé unicamente una nicchia, più o meno consistente, di mercato “in attesa” – o comunque ben disposto nei suoi confronti –, ma esige piuttosto una concreta sostenibilità iterativa. Necessita cioè di una provata congenialità con gli standard produttivi delle reti operanti nell'epoca in cui pretende inserirsi. Sempre a proposito di Saratoga Elisabetta Trincherini segnala che «la prima ipotesi di Massimo Vignelli» era «realizzare la struttura del divano in marmo. Da subito, però, i problemi legati a questo tipo di soluzione risultano evidenti: gli altissimi costi legati alla difficoltà della lavorazione di un materiale prezioso, molto pesante e delicato allo stesso tempo, rendono davvero improbabile l’ipotesi di una serializzazione dell’oggetto e del suo inserimento in una logica produttiva»[19]. Con brutale sintesi, adottando la terminologia vignelliana, si sarebbe indotti a pensare che la prima idea progettuale di Saratoga – ritenuta all’epoca fin troppo estrema persino dall’ardita Poltronova – manifestasse una palmare debolezza pragmatica. Faremmo però un torto non solo agli autori (e al mercato) ma anche al valore complessivo della proposta e della gamma Saratoga di cui il divano è solo un elemento. Semmai non è illecito arguire che l’opzione originaria dei Vignelli, se da un lato palesa una lacuna di prospettiva – forse inaspettata in progettisti avveduti come i Vignelli –, d’altro canto rimarca almeno due temi di non minore rilievo per i designer e il design in generale: 1) l’antica data dell’interesse degli autori nei riguardi del progetto lapideo; 2) la natura ambivalente del progetto industriale tout court, dove la straordinaria valenza visionaria dell’idea progettuale è inevitabilmente tenuta a confrontarsi in un duello, talvolta cruento, con i limiti della materia e la vischiosità del contesto: freni che, quando non colti in anticipo dai designer, sono sovente veicolati nell'iter progettuale dalle ponderate remore imprenditoriali o abilmente superate dalla competente sagacia dei terzisti e degli esecutori.

[19] Elisabetta Trincherini, Saratoga, in Umberto Rovelli (a cura di), MuDeTo Collection III (2016-17), MuDeTo Edizioni, Firenze 2018 (vedi anche: saratoga_elena_valle_lella_massimo_vignelli_poltronova.htm).

Nei riguardi dei progetti dei Vignelli occorre inoltre soffermarsi sulla natura ambivalente che molti critici hanno colto e più volte rilevato nella dinamica creativa della stessa coppia autorale. Non va infatti dimenticata una costante dialettica tra animus sintattico e anima pragmatica che ha contraddistinto l’opera di Lella e Massimo Vignelli. Dialettica spesso tradottasi e concretizzatasi in prodotti irriducibilmente “ibridi”, frutto cioè di un gioco ponderato fra «l’aspirazione a una forma primaria, quella della struttura geometricamente pura» e la «comodità e l’eleganza glam»[20]. Un gioco di genere, spesso riflesso nelle materie adottate come accade appunto in Saratoga, nell’incontro/scontro che abbina le forme rigide di natura vegetale (legno laccato) a quelle assai più acquiescenti di natura animale (cuoio e piume d’oca) determinando un connubio felicemente conteso tra l’assertivo e l’accondiscendente. Unyo ambivalente e vitale dove nessuno dei due approcci sembra prevalere sull’altro.

[20] Elisabetta Trincherini, Saratoga, in Umberto Rovelli (a cura di), MuDeTo Collection III (2016-17) , MuDeTo Edizioni, Firenze 2018 (vedi anche: saratoga_elena_valle_lella_massimo_vignelli_poltronova.htm).

Tre lustri separano Saratoga da Metafora #1 e nel caso del tavolo basso, l’algido portato dei materiali adottati (marmo e vetro o cristallo), pur se inconsueto, appare tutt’altro che improprio per la tipologia considerata. Il tavolo basso (tavolino da caffé o da fumo) non è certo uno dei topoi narrativi dell’ars amandi, ossia non fa parte dei “luoghi” tra le mura domestiche che l’immaginario collettivo associa al mondo notturno, al riposo, ovvero a più o meno blande relazioni erotiche. Anzi se esiste un singolare récit – non tanto carsico quanto sottaciuto – nel quale il tavolo basso è spesso protagonista, basterebbe citare la straordinaria frequenza con la quale questa tipologia ricorra nei casi di patologia forense al cinema o nelle serie televisive crime. Sono, infatti, innumerevoli gli episodi che vedono collutazioni o persino fievoli spinte concludersi con l’urto letale dell’angolo acuminato di uno spigolo o con l’infrangersi altrettanto fatale di un top in vetro o cristallo. Insomma, una “fedina penale” tipologica che sgombra il campo e affievolisce di molto il valore e la consistenza delle pur comprensibili remore esposte da Valery.

Sicché, per valutare le affinità elettive del tavolo basso (e le conseguenti ricadute progettuali), occorre forse argomentare diversamente. In primo luogo ammettendo che gli sono piuttosto pertinenti due ulteriori connotati: da un lato ancillare e conviviale (supporto oggettistica, offerta di cibo, bevande, ecc.); dall’altro simbolico, decorativo e reputazionale (ostentazione di benessere sociale, sfoggio di sé, esibizione culturale – «non a caso» uno dei «trend in voga su Pinterest ed Instagram è quello di fotografare i libri d’arte e da collezione posizionati sopra il tavolino in salotto»[21]). Connotato, quest’ultimo, che, come poc’anzi anticipato, la comunicazione aziendale ha colto e esaltato fin dalla primissima campagna pubblicitaria. L’allusione “metafisica” richiamata dall’opera di De Chirico (Piazza d’Italia, 1913) inserita nell’evocato contesto espositivo in penombra punta fin da subito a rimarcare il risvolto simbolico di un prodotto che già col nome impegna l’acquirente (e futuro fruitore) a vedere “oltre” l’oggetto in sé. A vedere cioè qualcosa che, non fisicamente presente, solo la mente può, per così dire, materializzare virtualmente.

[21] Elena Parmegiani, La storia del tavolo Metafora: un oggetto cult del design, “Velvet Mag”, 25 luglio 2021 (velvetmag.it/2021/07/25/la-storia-del-tavolo-metafora-un-oggetto-cult-del-design).

Ed è proprio sul piano del puro gioco mentale che paradossalmente si determina un’impasse – effusa in primo luogo dalle specificità di grana, trama e colore/i – che s’oppone alla sommaria categoricità dei richiami morfologici adottati. In altri termini, la verve persuasiva di Metafora #1 dipende dal fatto che l’eros spaventato dalle aride esalazioni di “atopia spaziale” promananti dagli spigoli dei profili euclidei delle basi e persino dal nitore del top trasparente, trova comunque nella possente materialità delle superfici una valenza aperta alla relazione, tramite la quale orientarsi. A “scaldare” e rendere più prossima a chiunque la lineare essenzialità del progetto sono così proprio le lacune, le screziature, le porosità, le intermittenze cromatiche: tutte le minute imperfezioni della concretezza lapidea e la prodigiosa creatività “figurativa” delle trame che disegnano le facce marmoree dei solidi. Solidi la cui complessiva ambivalenza è da imputare al loro essere assolutamente identici per quel che concerne la sagoma e al tempo stesso unici nell’epidermide superficiale per trama grafica, consistenza tattile e colore.

Inoltre, i quattro supporti – ognuno dotato di una speciale luminosità imputabile al basso indice di rifrazione della calcite – possono essere disposti sotto il piano trasparente senza alcun vincolo prefissato dagli autori. Ogni fruitore può così dar libero sfogo a una basica ars combinatoria, vincolata esclusivamente da gravità e leggi della statica. Il che equivale a un potenziale abaco di opzioni talmente vasto che – come talvolta accade ai più plebei tasselli in legno IKEA – persino un supporto può risultare superfluo alla realizzazione di un complesso coordinato efficace. Il nero cubo “islamico” può allora manifestare liberamente la propria natura intimamente scismatica allontanandosi dal gruppo per fungere da supporto di piante e libri, oppure il simbolo imperiale in travertino può provocatoriamente ergersi di nuovo decidendo di appartarsi serenamente a distanza dai tre residui sodali perfettamente in grado di svolgere il collegiale ruolo di sostegno proprio come accadeva in epoca romana.

Ma per uscire dal campo delle illazioni e rientrare nella sfera delle strategie progettuali comprovate circa i limiti previsti dai Vignelli alla libera associazione dei supporti, è sufficiente dare un’occhiata agli schemi (sei disegni elementari elaborati dall’ufficio Casigliani su ispirazione degli autori) ideati per comunicare le regole base della “installazione” di questo – per usare l'ironica definizione coniata da Piero Fornasetti – “tavolo a composizione variabile per matematico a riposo”.
Nei primi due disegni si stigmatizzano altrettanti errori comuni di posizionamento da evitare in modo tassativo: a) collocare i solidi (quasi fossero “gambe” normali) alle quattro estremità o comunque vicino al margine esterno del top in vetro/cristallo; b) utilizzare verticalmente il cilindro (la cui altezza è pari al diametro) ossia posare al suolo il solido sulla base piatta.
Un terzo disegno, riportando un esempio approvato, contribuisce a chiarire il senso delle prime due eccezioni.
Con i restanti tre schemi si descrive infine la scansione temporale delle fasi della “messa in opera”: 1) il piano trasparente viene posizionato sulla composizione prescelta dei tre volumi alti esattamente 20 cm, ossia la piramide, il cilindro e il cubo; 2) si inserisce sotto il top la sfera che può essere collocata agevolmente anche in posizione centrale per rotolamento dato che la dimensione del suo diametro è leggermente inferiore (19,8 cm) rispetto a quella degli altri solidi (in altri cataloghi alla sfera è attribuito il diametro di 19,9 cm).

Schemi grafici relativi alla installazione in loco dei 5 elementi (un piano in vetro/cristallo + quattro solidi marmorei) che compongo il tavolo Metafora #1. Le figure stilizzate – che, insieme ad altre, mirano a illustrare le pratiche da adottare nella gestione dei vari elementi dei diversi articoli aziendali – sono tratte da un catalogo Casigliani degli anni 80. Da notare la minima differenza dimensionale, già segnalata nel testo, della sfera rispetto ai restanti tre elementi in marmo che ne consiglia l'utilizzo solo quando il piano è già posto orizzontalmente sopra agli altri solidi. [x]

La canonica tensione dei Vignelli nei riguardi della razionalità classica greco-romana è così temperata dall’altro indefinibile a priori culturale suo antagonista: l’impermanenza. Quest’ultima accede al (incidendo sul) prodotto finito essenzialmente per due vie maestre. In primo luogo tramite l’indeterminazione progettuale nei riguardi della disposizione dei quattro supporti – una sorta di virtuoso décalage applicato alle richiamate ortodossie sintattiche che ne contrasta l’imperiosità dell’implicito ferreo dictat. La seconda via sta invece nell’eufemistica declinazione di ogni astrattezza, unicità e irrelazione rinvenibile nei pilastri radunati sotto il piano vitreo con le specifiche tonalità che le materie – progenie dei luoghi, ossia della peculiare diversità che vivifica il mondo, specificandolo come quel mondo – sanno offrire a qualunque modello o archetipo astratto. A entrambi, infatti, Metafora #1 consente di flettersi umilmente se non a qualcosa di superiore (come nel monito dostoevskiano) almeno all’insinuarsi radicale della sorgiva vitalità del genius luci rinserrato nella materia marmorea – roccia metamorfica per eccellenza il cui colore «dipende dalla presenza di impurità minerali (argilla, limo, sabbia, ossidi di ferro, noduli di selce), esistenti in granuli o in strati all’interno della roccia sedimentaria originaria»[22].

[22] Marmo, ad vocem “Wikipedia” (https://it.wikipedia.org/wiki/Marmo).

Tavolo colto, sapienziale e sapientemente acuto sotto il profilo interculturale (l'altezza ridotta, lo stile sobrio, il libero posizionamento dei supporti ne consente l'utilizzo come tavolo espressamente conviviale in contesti orientali – non stupisce, dunque, che sin dalla sceneggiatura Bernardo Bertolucci lo citi nell’arredo di una scena del suo Piccolo Buddha del 1993), Metafora #1 risulta così astratto e atemporale nell’essenziale profilazione dei suoi elementi da rivolgersi espressamente alla mente. Al tempo stesso il tavolo è così matericamente definito da gratificare anche l’occhio per la concreta attualizzazione delle superfici – quest’ultime, peraltro, convenientemente levigate per misurarsi con successo in un dialogo serrato con la mano umana. Rilevando questo triplice coinvolgimento mentale e sensualmente sinestetico si rimane però sempre al di qua della portata rivoluzionaria di un oggetto la cui natura è radicalmente sfuggente. A rigore, infatti, il kit di elementi posto sotto il nome di Metafora #1 è talmente ipodeterminato dal punto di vista tipologico da non poter essere colto propriamente dal semplice lemma “tavolo”. Come Aurelio Zanotta intese giustamente definire il suo Europa “elementi per divano”, così la forza (al pari della debolezza) rivoluzionaria di Metafora #1 si evidenzia assai più chiaramente col termine di “elementi per un tavolo basso”.

Un momento dell'incontro dei monaci tibetani Lama Norbu (Ying Ruocheng, a sx) e Kenpo Tenzin (Sogyal Rinpoche, a dx) con i genitori Lisa (Bridget Fonda) e Dean (Chris Isaak) di Jesse Konrad (Alex Wiesendanger), il bambino di Seattle che secondo l'interpretazione di alcuni segni lasciati prima di morire, potrebbe essere la reincarnazione del maestro Lama Dorje. Nella sequenza, il tavolino Metafora #1 evidenzia come la sua altezza ridotta, lo stile sobrio e il libero posizionamento dei supporti consenta a culture che non fanno uso della sedia di “reinterpretarlo” senza apparenti difficoltà in quanto tavolo conviviale. La versione monomaterica qui utilizzata (a prima vista quella che prevede i quattro solidi euclidei di base – cubo, cilindro sdraiato, sfera e piramide – realizzati in marmo Bianco di Carrara) accentua il nitore dell'ensemble progettuale nonché la minimale linearità dell'intero arredamento della zona giorno. (a chi desiderasse vedere la sequenza video tratta dalla pellicola segnaliamo il seguente link su YouTube). [x]

Tra le prerogative di tale specifica classe tipologica non va dimenticata né sottovalutata la facilità di trasporto, consegna e inserimento in ogni ambito domestico. Duttile e fruibile nei più diversi ambiti anche in virtù dell’assortimento cromatico prescelto (monomaterico bianco, nero, color travertino, ecc.), il “sistema” Metafora #1 non prevede alcuna forma di giunzione; ogni elemento è a se stante e – a esclusione del piano cristallino (nella versione quadrata, 120 x 120 x 2 cm per 55 kg circa [23]) – di modeste dimensioni e peso accettabilmente contenuto. Ogni solido è consegnato separatamente in un proprio packaging con protezione schiumata di altezza poco superiore ai 20 cm (l’altezza di appoggio del piano del tavolo) e un peso variabile dai 17 ai 22 kg.

[23] Nei cataloghi Casigliani sono indicate almeno tre versioni del top in vetro o cristallo. Due quadrati, con lato 120 e 100 cm e uno rettangolare di 120 x 80 cm. Tutti comunque con spessore di 2 cm.

Singolarità d’approccio alla tipologia e complessiva levità d’impianto (nonostante l’inevitabile gravità dei materiali adottati), non manifestavano un connubio così originale e compiutamente inconsueto almeno dai tempi della “piantana” Arco progettata nel 1962 da Achille e Pier Giacomo Castiglioni per la nascente Flos (la cui sorte mercantile, non a caso, è analoga sia sotto il profilo delle vendite che del seguito imitativo indotto sul mercato). Entrambi prodotti capostipite di aziende, entrambi fusioni di elementi eterocliti ottenuti con semplici intuizioni progettuali, instaurando relazioni così elementari tra masse e componenti da risultare fin troppo facilmente replicabili in un mercato assai poco tutelato nell’inventività come quello dell’arredo. I successi immediati ottenuti sia dalla lampada che dal tavolo sono infatti l’innesco per casi di imitazione e di copia tra i più sconcertanti vissuti a livello internazionale da prodotti furniture. Proditoria emulazione probabilmente tuttora in atto in entrambi i casi.

Ma se per la fabbrica oggi “diffusa” nel distretto bresciano, l’impatto delle copie sul sempre più consistente bacino produttivo non si è rilevato esiziale per le prospettive aziendali di Flos, nei riguardi della, tutto sommato, modesta dimensione produttiva di Casigliani il processo emulativo ha progressivamente reso sempre meno sostenibili sia i costi di produzione (anche in virtù della consistente componente di lavoro “vivo” necessaria) che comunicativi. Quest’ultimi, specie a fronte della vastità del numero di copie peggiorative in circolazione, non più in grado di salvaguardare il marchio nemmeno sotto il profilo reputazionale. Come infatti rimarca l’amara testimonianza dello stesso Casigliani «è soprattutto la bassa qualità delle copie» a danneggiare «l’originale. Le persone – e più sono peggio è – si trovano di fronte a una copia senza averne la minima contezza. Magari ne hanno visto immagini su cataloghi e riviste e, come talvolta accade anche ai visitatori di un museo, ritenendo d’essere di fronte all’originale, rimangono delusi e pensano: “Mi sembrava più bello”. A lungo andare, se l’originale viene prodotto almeno 20-30 volte meno delle copie, non solo il mercato si satura, ma è l’interesse per quel determinato oggetto che finisce fatalmente col perdersi del tutto nel pubblico, perché nel mercato reale è ormai la copia banalizzata a rappresentarlo e “incarnarlo”. Ed è anche il limite di un mercato che, con la mancanza di controlli adeguati, rende la sobrietà dei progetti minimalisti di successo la prima e più facilmente aggredibile vittima sacrificale della concorrenza sleale»[24].

[24] Maurizio Casigliani, Memorie di un editore. Il progetto fra copia e delirio, in Umberto Rovelli (a cura di), MuDeTo Collection VI (2022-’23), MuDeTo Edizioni, Firenze 2023 (vedi anche: sezione Testimonianze più sotto in questa stessa pagina).

Le ultime Metafora #1, riconducibili a Casigliani, risalgono probabilmente al 2002, ma già alle soglie del millennio (1999) l’attività aziendale è drasticamente ridotta all’occasionalità episodica. Ed è solo dopo almeno un decennio di oscurità totale che – grazie all’interessamento di Emiliana Martinelli – la versione originale del prestigioso tavolo da caffè diventa nuovamente disponibile sul mercato europeo e nord-americano. Oggi distribuite da Martinelli Luce – che ha espunto dal nome del prodotto il suffisso numerico – le quattro versioni ormai canoniche di Metafora sono: le tre monomateriche in marmo Bianco di Carrara, Nero Marquinia, Travertino e l’abbinamento “storico” che prevede la piramide in marmo Bianco di Carrara, il cubo in marmo Nero Marquinia, il cilindro in Travertino e la sfera in Rasotica o, più di recente, in Emperador Dark. Pressoché invariate le dimensioni del top vitreo quadrato (120 x 120 x 2 cm), l’altezza massima dei solidi come il diametro del cilindro (20 cm) e il peso complessivo dell’ensemble finale (circa 125 Kg).

Questa “seconda” vita – senz’altro imputabile alla territorialità comune e alla stima reciproca che lega due imprenditori atipici e appassionati del progetto industriale d’arredo – merita comunque qualche considerazione di corollario. Anche solo considerando i progetti acquisiti da MuDeTo, un fil rouge in grado di cogliere d’emblée le lampade di Martinelli Luce già emerge vivido: la riconquista oggettuale del “gesto” (e dello sforzo) necessario per le diverse opzioni d’uso rese disponibili. Come in una “chiamata di correo”, l’esercizio di una presa in carico di responsabilità imposta progettualmente al fruitore è attuata con l’inserimento di dispositivi ed escamotage diversi per ogni progetto considerato: l’asta telescopica in acciaio (Pipistrello), il giunto rotatorio applicato al corpo illuminante (Cobra), il top inseribile sulla struttura (Toy), l’inusuale dispositivo interruttore “on/off” dotato di feedback sonoro (Elica). Tutti questi episodi evidenziano una strategia progettuale coerente praticata con tenacia da almeno due generazioni ponendo al centro del progetto l’essere umano in movimento: in ognuno di essi sono inevitabilmente i corpi in azione i veri soggetti che traspaiono dalla mera osservazione delle protesi.

Ebbene, anche nel caso del tavolo Metafora la sobria formalità geometrica si coniuga al riemergere di opzioni spaziali aperte al fruitore. Quindi, al di là dello scarto tipologico, un bacino progettuale comune risulta evidente considerando che, come detto, esistono infinite configurazioni funzionalmente efficaci per la disposizione dei supporti litici a sostegno del top traslucido. Opzioni disponibili sì, ma solo virtualmente. Per ottenerle, infatti, il fruitore deve agire in prima persona, “attualizzando” quanto, prima del suo decisivo intervento, era “in potenza”. Ossia operando quella scelta che nella muta e acronica immobilità del multiverso virtuale fa scaturire l’evento del tempo, determinando quel fatidico hic et nunc che solo può “dar luogo” alla narrazione. E con ciò dare il via anche a quel rituale di fidelizzazione (più o meno appassionata) che è comune a tutte le attività ludiche.

Sotto il profilo affettivo, infatti, le due Metafora ideate dai Vignelli per Casigliani sono progetti assolutamente sovrapponibili. Quel che differisce nella prima è l’allusione teatrale, la parvenza “seriosa” dell’allestimento, di un aggregato prefissato come orizzonte che corrisponde a una tipologia determinata. Parvenza che invece è del tutto assente in Metafora #2. Eppure, entrambe le Metafora corrispondono con efficace sintesi all’umano anelito di confrontarsi con l’esercizio della libertà “rigorosamente” offerta dal gioco. Cimentarsi, cioè, con gli universi di possibilità dissigillati proprio a partire dalle poche ferree regole di quei “trastulli di bambini geometri” che, pur disprezzati dal mondo adulto, costituiscono il primo passo per la costruzione del sé. Eventi, esperienze e pratiche ricreative dove, tra l’altro, è accaduto a ognuno di noi di esprimere preferenze acquisendo dimestichezza con la vitale nozione di parzialità: ossia essere parte di qualcosa di più vasto della nostra singolare esistenza. E, a partire da tale cosmica apprensione, ponderare e maturare decisioni con commisurata cognizione, attuando scelte anche difficili e aderendovi con determinazione. Determinazione che non di rado s’è tradotta in ulteriore crescita di consapevolezza, fiducia in sé, nonché proficue relazioni umane e sociali, contribuendo a evolvere e plasmare, giorno dopo giorno, la nostra inemendabilmente relativa identità.

Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #2 - gioco a 12 elementi in marmo Travertino, 1979 (1981), Casigliani [x]

Massimo Vignelli, Disegno di Metafora #2 di Casigliani per Philip Johnson, matita su carta, 9” x 12”, 1981
Box 456, Massimo and Lella Vignelli papers, Vignelli Center for Design Studies - Rochester, New York
Come riportato anche in nota all'intervista a Maurizio Casigliani (si veda la sottostante sezione Testimonianze), la data del disegno conservato al Vignelli Center for Design Studies a Rochester - New York (1981) corrisponde al 75° compleanno di Philip Cortelyou Johnson (1906-2005). Maurizio Casigliani afferma che fino a tale data Metafora #2 è da considerarsi un pezzo unico. Si dovrebbe arguire che sebbene il progetto di Metafora #2 risalga al 1979, almeno fino al 1981 l'imprenditore o non ne era a conoscenza o non ha mai ritenuto plausibile (come, forse, gli stessi Vignelli) una sua reale messa in produzione. E non si può nemmeno escludere che la stessa occasione del compleanno non sia stata, in realtà, che un espediente escogitato da Vignelli per convincere l'imprenditore del valore del progetto. (visualizza il documento originale) [x]

Pier Carlo Santini (Lucca, 1924 - Firenze, 1993) - photo © Benvenuto Saba




Il marmo – si crede e si dice da tutti e da sempre – è materia nobilissima, cattivante, viva, dotata di risorse e ricca di sorprese straordinarie.
Nessuna grande civiltà occidentale lo ha ignorato, anche se le sue fortune sono state alterne e mutevoli. Nella nostra stessa epoca, il suo non sempre è stato un grande destino. Ma l’odierna cultura architettonica lo ha reso partecipe di tanti nuovi significati, riscattandolo con l’autenticità della forma. Parallelamente pochi illuminati operatori col concorso e la collaborazione dei designers esperti e disponibili alla ricerca, lo hanno recuperato sul piano della produzione di oggetti, al punto che oggi si può veramente distinguere un cospicuo numero di modi di alta qualificazione progettuale.
Maurizio Casigliani ha creduto per tempo nella giustezza di un’operazione senza dubbio invitante, ma che esigeva, per essere compiuta con correttezza, qualche preliminare chiarimento ideologico, e poi definizione di propositi, e rigore di metodologia produttiva. Il suo incontro con Lella e Massimo Vignelli verso la fine degli anni settanta gli consente di aprire un discorso che prosegue fino ad oggi.
Nasce il tavolo Metafora 1 che anticipa e già contiene alcuni caratteri costanti nella produzione di Casigliani. I Vignelli hanno compiuto una scelta cruciale: quella di lavorare sulle forme primarie, impiegando il marmo per costruire i supporti del tavolo, che sono un cubo, una sfera, un cilindro e una piramide. Il gesto progettuale, come si vede, è molto semplice e potrebbe sembrare perfino riduttivo: queste forme non le hanno certo inventate i due autori. Ma il contesto, invece, è inedito, perché l’ideazione ha tenuto conto di una serie di fattori e di effetti che ad essa conseguono. Intanto il ricorso a quelle forme, che sono patrimonio ancestrale della memoria di tutti, assicura un esteso e facile consenso, nonché, condizione che Casigliani ritiene irrinunciabile, una certa immunità ai pericoli della rapida obsolescenza. Se è vero che il marmo è materia durevole per antonomasia, sembra opportuno esaltare questa sua proprietà con soluzioni non troppo precarie sul piano del gusto, poi presto incompatibili nel consumarsi rapido di ogni parvenza e identità. Non si può essere fuori del tempo, ma nel tempo si può stare in tanti modi. Quella di Casigliani è dunque una scelta cosciente, che ha una sua logica stringente e precisa.
I quattro solidi che fanno da supporto al tavolo non avrebbero senso né ragione, se il piano non fosse trasparente. Il cristallo, di congruo spessore, anch’esso materiale nobile e prezioso, risponde magnificamente allo scopo. I solidi, in vista, sono come pezzi d’un gioco spiritoso e bizzarro, nonostante l’ascendenza euclidea. Possono essere realizzati con un’unica qualità di marmo, ma anche con qualità diverse, variamente combinate e combinabili.
Ma Metafora 1 è solo un tavolo capostipite, sia pure di valore assai emblematico. Oggi, dopo dieci anni, non ci s’accorge della sua età, proprio com’era nei voti e nei propositi di Casigliani. Si è andati però molto avanti, ma con coerenza e senza contraddizioni.
Presa nel suo complesso, e cioè considerandone la fisionomia generale, ovvero lo spirito che la informa al di là della peculiarità stilistica dei molti modelli, la produzione di Casigliani rivela che l’attenzione alla materia-marmo è una costante davvero decisiva. Tutti i progettisti, da Vignelli a Stoppino, da Lazzotti a Tesconi contribuiscono a chiarire anche un altro punto della filosofia di Casigliani, che diventa un tema stabile della comune poetica. Si torna a considerare ancora il tipo di marmo impiegato, perché ogni marmo può essere esaltato da trattamenti particolari, lavorandone le superfici al fine di ottenerne textures differenziate, opache, semilucide, specchianti. Il passato di Casigliani costituisce ormai una tradizione ben identificabile nella storia delle forme che da oltre un ventennio per il marmo sono state create come espressione della nostra più autentica cultura.
Ma da questo passato fatto non solo di risultati, ma d’esperienze compiute e maturate “sul campo”, ci si muove oggi verso un futuro aperto a nuove ricerche e tipologie. Senza disattendere i fondamenti di cui si diceva, Casigliani sta incentivando la propria attività anche mediante il contributo di nuove energie progettuali e creative. Si stanno vagliando idee e proposte; si compiono verifiche sperimentali e comparate; si controlla la proprietà delle soluzioni sul piano tecnologico e formale; ci s’interroga sui significati delle immagini e sulla loro fisionomia. Un lavoro a più voci e a più mani, che intende garantire la giustezza delle scelte finali, raggiungibile solo attraverso l’apporto delle competenze disciplinari idealmente e operativamente impegnate nel processo produttivo.

Titolo / Title:

Nota su Metafora 1

Autore / Author:

Pier Carlo Santini

Luogo / Place:

Lucca

Data / Date:

1989

Massimo Vignelli (Milano, 1931 - New York, 2014)




Making furniture requires having a manufacturer with vision, but even more important is to have a craftsman inside the company who is willing to experiment and to bring the treasure of his experience to fruition; a sensitive person is the catalyst between the idea (us) and the production.
In the late 1970s, a friend from Pisa, Maurizio Casigliani, came to visit us in New York, with the idea of inviting us to design some marble furniture, since Carrara is near his home and its marble is very accessible. So, to start, I drew a sphere, a cube, a pyramid, and a cylinder, the four basic Euclidean shapes. I placed a sheet of glass on top of them and called it a coffee table. It was Friday; in the alternoon he left for Pisa. Monday morning Casigliani called and told me the coffe table looked great. “Sure”, I said skeptically. “No”, he said. “I have it in front of me”. I said, “I don’t believe it”. “I’ll explain it to you”, he said. “Saturday I went to Carrara, told the marble guy to make these four shapes. Then l went to see a friend who sells glass sheets and I had him cut a piece one meter square. Then on Monday morning I brought everithing to my friend the photographer, and while I was there I called the magazine CasaVogue. I explained to them that I had a new coffe table, described it, said it was designed by the Vignellis, and they said ‘Great! We’ll put it on next month’s cover!’“ And so it was. This was the fun of designing for Italian companies back then – no marketing; no production line problems. Just in ad out!.
The situation has changed since then. Timing is much closer to American production schedules. For Casigliani we designed a long line of marble furniture mostly tables, until the cost of marble furniture began to soar and became too heavy for the market to bear. That was the end, but it was fun to the end. As usual, for his company we designed all catalogs and promotional material as well as all exhibition stands.

Titolo / Title:

Vignelli: From A to Z

Autore / Author:

Massimo Vignelli, Janelle McColloch (edited by)

Luogo / Place:

New York | Courtesy Editor: Images Publishing - Mulgrave, Australia

Data / Date:

2007

Maurizio Casigliani (Marina di Pisa - Pisa, 1945)




Umberto Rovelli  È noto il racconto fatto da Massimo Vignelli dell’immediata messa in produzione di Metafora #1. Da un certo punto di vista in questa narrazione, quasi picaresca, mi sembra si perda un tratto rilevante: la preparazione del terreno che potesse consentire all’azienda una performance produttiva e comunicativa così efficace e rapida, credo non comune nemmeno all’epoca.

Maurizio Casigliani  Invece la cosa è stata davvero semplicissima. Ed è stata una mia follia quella di passare dalla vendita di prodotti, diciamo, leggeri, di gadget, non di design in senso stretto, a questa cosa per me, tutto sommato, nuova. Non è stata affatto preparata, e la magia è stata quella di non aver fatto alcuna preventiva indagine di mercato.
Provo a spiegarmi meglio con un esempio. Qualche anno dopo la produzione del tavolo, nel 1981, sono stato invitato a una conferenza a Chicago alla quale partecipava il prof. Philip Kotler, il guru del marketing, e alcuni personaggi del livello del presidente della Braun e della Motorola che all’epoca erano ai vertici della produzione della telefonia mobile. Ero abbastanza conscio del divario che c’era fra la mia attività e il ruolo di questi “giganti”, ma – specie per il boom di vendite ottenute dal tavolo Metafora #1 –, ero stato invitato anch’io, per cui m’ero preparato una serie di diapositive e un discorso articolato per l’importante occasione. Nonostante ciò l’ascolto dell’intervento di Kotler ebbe su di me un effetto tale da farmi mutare completamente ogni prospettiva. In quella occasione, infatti, il professore affermò seccamente che il design non serviva niente, partendo da una constatazione apparentemente inconfutabile: lo stato delle sue giacche Armani, sciupate, a suo dire, dai porta-badge utilizzati nel corso della prolungata attività di conferenziere.
In base a questa esperienza, per così dire “vissuta sul campo”, Kotler sosteneva che facendo 250 conferenze l’anno le sue giacche si rovinavano inesorabilmente perché nessun designer aveva mai pensato di progettare un porta-badge che fosse adeguatamente “indossabile” e non sciupasse le giacche. La cosa mi fece talmente infuriare che rivoluzionai completamente il mio intervento. Dopo un preambolo in cui ringraziavo gli organizzatori di aver invitato uno “sconosciuto” come me a dar conto del suo successo, proseguii dicendo che quella mattina avevo compreso anche come mai io fossi lì. Essendo una piccola impresa non potevo permettermi la collaborazione di un uomo di marketing del livello del prof. Philip Kotler che non aveva capito quali fossero da un lato il ruolo del designer e dall’altro le valenze del nuovo marketing. Proprio in quella sede proposi una distinzione, che poi per me è diventata un motivo ricorrente, fra user e consumer. Puntualizzai che occorreva pensare al primo piuttosto che al secondo. Ossia, in altri termini, occorreva che le energie progettuali e produttive si focalizzassero sulla figura “attiva” dell’usufruitore piuttosto che su quella “passiva” del consumatore.
Avevo così capito di esser stato convocato in quel consesso in quanto “risorsa” per un contesto, quello del design americano, che dopo la Coca Cola e i Juke Box Wurlitzer non riusciva a produrre più niente di così buono ed efficace. Ma tutto ciò dipendeva da un fatto ai miei occhi molto semplice: le grandi aziende USA avevano il “filtro” dell’uomo di marketing. Ossia ogni loro strategia e azione dipendeva da quel potentissimo influencer del processo decisionale aziendale che, vedendo il mio tavolo, avrebbe certamente detto: «No, questo no. I tavoli sono fatti con tre o con quattro gambe. Questo ha quattro pezzi di marmo messi così e così, quindi non potrà mai avere successo». Al contrario io ero talmente libero di credere nella bontà di questo prodotto, nella sua purezza e nell’indubbia originalità della cosa, che mi concedevo il lusso di investire l’80% delle mie vendite (e sottolineo, non l’80% dei “guadagni”, ma del totale di quel che riuscivo a incassare!) esclusivamente per pubblicizzarlo. Una sorta di aberrazione dal punto di vista imprenditoriale, perché le leggi di mercato dicono che è opportuno investire circa il 20% degli utili. Io invece, credevo tanto nel prodotto che stavo investendo l’80% dell’intero budget di cui disponevo in pubblicità. E il tempo mi ha dato ampiamente ragione.
Quindi, per tornare alla questione di partenza, non ci fu nessuna preparazione, non ci fu assolutamente niente. Infatti il prodotto nacque nel giro di 4 giorni, considerando anche il sabato e la domenica! Massimo mi diede il disegno un giovedì mattina. Quando lo vidi eravamo entrambi negli USA, a New York, e gli dissi: «Bene Massimo, è una bellissima idea». Venerdì mattina ero già in Italia attivandomi subito per fare il prototipo, nel pomeriggio commissionavo le fotografie e il lunedì mattina ero già in grado di consegnare il materiale definitivo alle riviste per realizzare la stampa delle pagine pubblicitarie.

UR  Resta il fatto che è innegabile un preventivo interesse da parte sua nei riguardi del lavoro dei Vignelli che potremmo considerare dei “sorvegliati speciali” dell’imprenditore Maurizio Casigliani da assai prima dell’exploit di Metafora #1.

MC  Questo è corretto. Già nel 1972 (sette anni prima dell’episodio di Metafora #1) mi ero presentato a New York dicendogli: «Mi piace molto il tuo lavoro. Se mi fai un prodotto, io, intorno a questo prodotto, ci costruisco un’azienda». Lui pensò che ero completamente pazzo per cui non prestò minimamente attenzione a questa mia dichiarazione d’amore e d’intenti. Nel 1979 lo chiamai in ufficio perché avevamo comuni amici, e ci eravamo comunque tenuti in contatto nel corso degli anni. Nel 1979 lo chiamo in ufficio e gli dico: «Massimo, vengo a New York». E lui: «Ah, vieni a casa mia, sei mio ospite». «No, guarda, ti ringrazio», dico io, «Preferisco andare in albergo. E voglio un appuntamento con te in ufficio. Mi dai un giorno, un’ora, perché dobbiamo parlare seriamente di lavoro, non come l’altra volta a casa, a cena con Woody Allen e tante altre belle cose». Una volta in ufficio iniziai dicendo che il marmo era un materiale molto pesante, quindi occorreva pensare a oggetti che fossero facilmente imballabili e trasportabili e lui cominciò a fare questi elementi e a un certo punto ci disegnò un vetro sopra. Quello era il tavolo. Gli dissi: «Guarda, io vado via!». E lui: «No, no!». Ma ormai io ero irremovibile: «Basta, basta così». Per Massimo non c’era ancora niente in quel disegno che invece per me era fin troppo bello: l’espressione del minimalismo più esasperato. Quindi lo chiamai la domenica dicendo «Massimo, guarda che il tavolo è pronto». All’epoca non c’era ancora la possibilità di mandare immagini via fax, per cui Vignelli disse: «Allora domani mattina vengo». Il giorno dopo, quando lo vide, si emozionò anche lui e da quel momento la vita del tavolo Metafora #1 è cominciata davvero.
Lo presentai al Macef, non al Salone del Mobile – dove peraltro venne presentato quindici giorni dopo. Ricordo che la mattina prima dell’allestimento vennero allo stand Vittorio Livi e Aurelio Zanotta. Guardavano questo tavolo e dicevano: «Maurizio ma come fai, tu che produci degli oggettini di ceramica, di terracotta, di ottone, a fare un prodotto così, non ti prenderanno mai sul serio...». Volevano, cioè, che glielo cedessi, ma rifiutai. Il giorno dopo venne Isa Vercelloni che all’epoca era direttrice di “Vogue”, vide il tavolo e mi disse secca: «Questa è la copertina del prossimo numero Vogue dedicato al Salone del Mobile». La copertina della rivista – che ritraeva il tavolo con una Piazza d’Italia di De Chirico sullo sfondo – venne così realizzata di lì a poco da Aldo Ballo.
Dunque, ci fu davvero una serie di coincidenze positive di cui però non rimasi minimamente stupito. E non fui affatto meravigliato proprio perché il prodotto c’era eccome, era impossibile che non facesse scalpore!

UR  Da chi è dipeso il “suffisso” #1 che troviamo a Metafora? Fin dall’inizio si pensava a una serie di articoli allegorici disegnati dai Vignelli? Quanto tempo passa fra le due “metafore” e quali sono le differenze più evidenti tra gli articoli?

MC  In effetti, la Metafora #2 è una scatola che feci più che altro realizzare materialmente io stesso, sulla base di un suggerimento verbale dei progettisti. I Vignelli non fecero nemmeno uno schizzo, perché ormai eravamo talmente entrati in sintonia che gli dicevo: «Sai, il bello delle cose che facciamo è che le possiamo raccontare al telefono. Mi hai spiegato la cosa, io l’ho capita: va bene così». Metafora #2, praticamente era... Ha presente le scatole dei giochi da bambino di legno? Ecco, comprai una scatola da giochi di legno e la feci uguale in marmo. Effettivamente Metafora #2 non è mai stata disegnata, bensì solo raccontata...
Comunque venendo alla sua domanda, devo dire che sì, ci piacque fin da subito l’idea di fare varie “metafore”. La prima era una metafora della vita e della civiltà umana: il cubo nero era La Mecca (Nero Marquinia di Makka), la piramide bianca l’Egitto (Bianco di Carrara), la sfera – che è un Mondragone – sembra la sfera terrestre vista da lontano, mentre il cilindro, che noi vogliamo assolutamente sdraiato, rappresenta visivamente la fase conclusiva del potere di Roma nell’antichità, Infatti, essendo il Travertino il marmo romano per eccellenza, la disposizione “supina” del solido era un esplicito richiamo alla caduta dell’impero romano.
Metafora #2 era invece un giocattolo architettonico concepito come metafora della relazione tra gli elementi piani della geometria pitagorica ed euclidea e i volumi elementari, ossia i “mattoni” base dell’architettura e del design. E in questo caso il richiamo agli archetipi formali dell’architettura aveva un’ulteriore ragione molto specifica e determinata – ossia tutto il contrario di quel che dovrebbe preludere alla nascita di un prodotto che solitamente s’intende pensato per un generico utente.
Questa scatola di costruzioni, divenuta poi Metafora #2, in effetti fu in origine ideata e realizzata come un pezzo unico pensato come regalo per un compleanno dell’architetto Philip Cortelyou Johnson. Non ricordo benissimo, ma credo fosse il 1981. Quando sono arrivato con questa scatola contenente quello che ritenevo il primo e unico esemplare prodotto, Johnson, sentendone il peso non indifferente, disse: «Mamma mia, ma che c’è qui dentro?». Una volta aperta la confezione, la prima cosa che fece fu quella di sedersi a terra e cominciò a “fare le costruzioni”. Felicissimo come un bambino, si divertiva da morire perché ritrovava in quei pezzi di marmo le stesse forme, gli stessi elementi progettuali che, insieme a John Burgee, aveva adottato per ideare nel 1978 l’AT&T Building (oggi Sony Building) poi realizzato a New York, fra numerose controversie, nel 1984. In particolare l’elemento triangolare proprio del timpano postmoderno “interrotto” che concludeva ironicamente il grattacielo – e che all’epoca fece un certo scalpore – nei pezzi della scatola trovava più echi espliciti. Mentre era lì che giocava mi si avvicina un signore che dice «Ne voglio uno anch’io». Io, non conoscendolo, ero imbarazzatissimo, anche perché, trattandosi di un pezzo unico, non sapevo nemmeno quanto poteva costare. Allora, credo intuendo tutto ciò, Johnson, senza nemmeno alzare la testa dal suo “giocattolo”, disse: «Craig, come ti dico sempre, quando fai una richiesta, specialmente nel caso di un regalo come adesso, prima mostra il tuo biglietto da visita». «Ah, certo» fa lui e mi dà questo biglietto dove era scritto: “R. Craig Miller: Curatore del Metropolitan Museum di New York”. Così compresi che la sua richiesta riguardava un prodotto da esporre nel museo.
E non solo Metafora #2 venne acquisita ed esposta al Metropolitan Museum, ma il kit di costruzioni in marmo venne messo in vendita nel bookshop del museo. Divenne così un pezzo di produzione vera e propria: cosa che, mentre lo realizzavo, non avrei mai immaginavo potesse accadere.

Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #2 - gioco a 12 elementi in marmo Travertino, 1979 (1981), Casigliani | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani [x]

La data dell'episodio, il 1981, che corrisponde al 75° compleanno di Philip Cortelyou Johnson (1906-2005), sarebbe confermata anche da un disegno conservato al Vignelli Center for Design Studies a Rochester - New York. I responsabili dell'Archivio Vignelli commentano pubblicamente il ritrovamento osservando che «nel luglio 1981, Massimo Vignelli» aveva realizzato «questo disegno per l'architetto Phillip Johnson», e s'interrogano sul motivo della sua realizzazione. Se, infatti, i «mattoncini raffigurati nel disegno, sono stati progettati da Lella e Massimo Vignelli nel 1979 per Casigliani», perché allora «Massimo ha fatto questo disegno per Philip? Forse doveva essere un saluto di compleanno? A Philip piaceva Metafora #2? Scritto a mano sul fondo si legge “variazioni su 12 pezzi, a Philip, luglio 1981” ed è firmato da Massimo Vignelli. Forse scopriremo di più su questo disegno proseguendo la ricerca negli archivi. Per ora godetevi lo schizzo in tutto il suo adorabile mistero». A fronte di quanto sopra affermato da Maurizio Casigliani (peraltro in più occasioni come segnalato da Alessandra Acocella nel suo contributo nel volume Creativa Produzione edito dalla Fondazione Ragghianti) si dovrebbe arguire che sebbene il progetto di Metafora #2 risalga al 1979, almeno fino al 1981 l'imprenditore o non ne era a conoscenza o non ha mai ritenuto plausibile (come, forse, gli stessi Vignelli) una sua reale messa in produzione. E non si può nemmeno escludere che la stessa occasione del compleanno non sia stata, in realtà, che un espediente escogitato da Vignelli per convincere l'imprenditore del valore del progetto. (visualizza il documento originale) [x]



Massimo Vignelli, Disegno di Metafora #2 di Casigliani per Philip Johnson, matita su carta, 9” x 12”, 1981
Box 456, Massimo and Lella Vignelli papers, Vignelli Center for Design Studies Rochester, New York [x]

UR  «Se è vero che il marmo è materia durevole per antonomasia, sembra opportuno esaltare questa sua proprietà con soluzioni non troppo precarie sul piano del gusto», questa massima di Pier Carlo Santini, pone in luce una precisa scelta “editoriale” che Casigliani ha mantenuto nel tempo anche al variare dei collaboratori. Quanto di questa scelta deriva dalla fortuna del primo prodotto Metafora #1 e quanto invece dalla materia stessa, il marmo?

MC  Chi non ci conosceva a fondo, o non era del mestiere, veniva spesso tratto in inganno dalla coesione identitaria aziendale. Ricordo che un giornalista all’epoca piuttosto famoso, Mino Damato, una volta mi disse: «Ma quante sono le cose che fai!», nel senso che immaginava fossero state realizzate tutte da me, ossia da una sola persona. E alla mia risposta: «Guarda che qui c’è la mano di tanti designer», Damato replicò: «Eppure a guardare il catalogo sembra sempre che ci sia la stessa mano».

UR  Il tocco dell’editore...

MC  Mino Damato, almeno in parte, coglieva nel segno. Lavoravo sempre con i designer, vale a dire che non andavo nei loro studi con una richiesta più o meno precisa da “imprenditore”. Io volevo lavorare “con” loro. Nel senso che io parlavo e loro disegnavano. Purtoppo non so disegnare, a quindici anni feci persino delle analisi psico-tecniche per il timore di avere danni più gravi, quindi nel tempo ho elaborato una mia filosofia di prodotto che per certi versi non nasce da considerazioni formali bensì sulla “durata”. Infatti una volta feci una pagina pubblicitaria nella quale sostenevo che i mobili dovrebbero essere fatti di cartone, estremamente economici e facili da buttare via, oppure durare più vite. Il marmo già è un materiale imperituro, non invecchia, ma anzi migliora col tempo. Guardando lo stesso pezzo dopo l’invecchiamento ci si rende conto che la patina del tempo lo ha reso più interessante di quando non fosse da nuovo. L’oggetto diventa inevitabilmente più bello, acquisisce fascino, i colori si fanno seducenti, non si può buttare via. Persino il tavolo un po’ scalfito privato di un angolo va benissimo. Al contrario di quanto succede per una lampada di plastica o in vetro, se le manca anche una minima parte è da considerare rovinata.
Un momento critico a mio avviso si presentò quando apparvero sul mercato le “prove d’autore”, per così dire, di Sottsass, Memphis, ecc. E questo sostanzialmente perché quasi tutte le proposte riconducibili a quell’autore e a quella corrente erano troppo “spinte” ovvero troppo esplicitamente “modaiole”. Infatti sono quasi subito entrate nel secondo mercato del modernariato, ma proprio di quello vecchio, di maniera. Anche perché in gran parte si trattava di “non prodotti”, ossia di oggetti privi di reali contenuti di necessità domestica e sostanzialmente inefficaci sotto il profilo del servizio reso all’utenza. E fondamentalmente i materiali anche nobili e tradizionali di cui erano costituite, secondo me, erano stati usati senza alcun rispetto o competenza.

UR  Ulteriore elemento d’interesse dei prodotti Casigliani (quasi un “corollario” della scelta editoriale, per così dire, “classica” mantenuta nel tempo) è l’implicita riconsiderazione dell’apporto autorale laddove il designer non è più visto come mero “conformatore” della materia quanto piuttosto come concertatore di relazioni e suggestioni attivate tramite la materia. In modo che del progetto e del progettista pare risulti peculiarmente consonante alla produzione Casigliani più l’acume “sintattico” che l’estro formale il più delle volte fine a se stesso, cifra personale sovente più insidiosamente egotica che corale.

MC  Quando gli artisti e i designer con cui ho collaborato mi facevano vedere il disegno di un nuovo prodotto, io adottavo un “test” di orientamento. Semplice, ma spesso efficace. «Prova a immaginare», dicevo, «se fosse fatto in legno, non sarebbe molto più bello?». Alla sincera risposta, quasi sempre affermativa, passavo alla seconda domanda: «Costa di più o di meno farlo in marmo anziché in legno?». Invariabilmente la risposta era: «Di legno costa meno». Così, con queste due semplici domande, potevo valutare non solo la cogenza di ogni nuovo progetto, ma anche la congruenza o meno di ogni nuova proposta con quanto fino allora realizzato da Casigliani. Per quanto mi riguarda, se il progetto è più economico e bello realizzato in legno, vengono a mancare del tutto, o quasi, sia il suo valore che la sua ragion d’essere. Vengono a cadere cioè i motivi che dovrebbero essere alla base di ogni produzione: ottimizzare il consumo di tempo, denaro, energie intellettuali e materia ai fini della pratica realizzazione di un’idea.

UR  Sta profilando un rapporto designer/imprenditore dove quest’ultimo, forte della sua esperienza nel campo del “fare prodotto”, conduce con modalità quasi “maieutiche” il progettista a “sintonizzarsi” con le ferree leggi dell’orizzonte produttivo. Se da un lato, come accade per Metafora #1, senza imbarazzi lei assume la responsabilità di considerare conclusi i tempi dell’elaborazione progettuale, d’altro canto con altrettanta sicurezza è disposto a frenare troppo disinvolti entusiasmi proponendo ripensamenti e insinuando il dubbio che il prodotto è ancora di là da venire. Posso immaginare che questo valga soprattutto per autori giovani o comunque meno esperti nel settore lapideo. Ma tra i collaboratori storici di Casigliani ci sono anche autori molto esperti e competenti come Giulio Lazzotti, nei confronti del quale mi riesce difficile ipotizzare per lei, come per chiunque altro del resto, il ruolo di mentore e/o di guida “socratica”.

MC  È verissimo. Per molti anni ho collaborato con Giulio Lazzotti che è un conoscitore del marmo come ne esistono pochi al mondo. Può essere considerato il mentore di un maestro come Isamu Noguchi per tutto quel che concerne la concreta conoscenza del marmo. Attraverso Lazzotti, infatti, Noguchi ha potuto conoscere questa materia in profondità: a Lazzotti si deve l’apprendimento di Noguchi delle tecniche basilari e più specifiche del marmo, ma in particolare delle lavorazioni che gli hanno nel tempo consentito di ottenere facilmente certi effetti scultorei. Ma tutto questo non ha mai impedito che io e lui si litigasse accanitamente circa la validità di alcune proposte.
Talvolta Giulio mi presentava lavori sui quali io, imprenditore, non potevo esimermi dal domandare: «Quanti pezzi possiamo fare di questo marmo? Ora hai trovato un bel blocco e da quel marmo viene fuori un bel tavolo. Ma se ne dobbiamo farne 1500, abbiamo modo di trovare abbastanza materiale adatto?». Giulio rispondeva secco: «No, ma che c’entra?». A questo io non potevo che ribadire che invece per me c’entrava eccome.
Voglio dire che, dal mio punto di vista, se quello che mi si propone non è affatto un progetto di design ma il progetto di un’opera d’arte, la mia reazione è sempre la stessa, ossia invitare chiunque a leggersi Artista e designer di Munari, in modo da capire che quelli che mi vengono proposti non sono progetti di design bensì pezzi unici. E in quanto non si tratta affatto di pezzi ripetibili all’infinito, per me, per la mia parte di imprenditore intendo, non vanno bene assolutamente. Certo può rivelarsi “castrante” non solo per il designer, ma, per certi versi, anche per me. Infatti in certi casi ho persino sofferto rinunciando a realizzare degli evidenti capolavori, ma onestamente non posso farci niente. A me, come imprenditore, un pezzo che ha questo evidente limite, ossia che finiti i due/tre blocchi esistenti sul mercato risulti impossibile da riprodurre, non può e non deve interessarmi, perchè essenzialmente non ha una sua ragione d’essere.
In proposito l’opinione di Giulio ritengo sia, ovviamente, diametralmente opposta. Ma forse è anche giusto così. Certi vincoli sono tenuto a percepirli e gestirli io in prima persona e non certo un creativo puro come Lazzotti.

UR  Se l’apporto dei Vignelli, pedine forse irrinunciabili per garantire un adeguato riscontro comunicativo all’esordio produttivo di Casigliani, è stato senz’altro determinante, sono però molti sono autori che hanno collaborato (anche a più riprese) con l’azienda. Autori assai vicini come il già citato Giulio Lazzotti, operativo a Pietrasanta fin dai primi anni 70 e altri territorialmente molto lontani, come il gruppo newyorkese dei SITE (Sculpture In The Environment) o l’architetto Richard Meier. Se ne potrebbe dedurre che uno dei meriti di Casigliani sia stato proprio quello di esaltare la centralità di un territorio fortemente segnato dalla storia e da un traditum ineguagliabile non tanto con tipologie produttive altrettanto di tradizione quanto piuttosto con i vitalissimi apporti intellettuali e sapienziali di approcci e culture esogeni rispetto al territorio stesso. Spesso generando mix di saperi e intenzionalità di assoluto rilievo. Ma quel che più importa è forse conoscere come avvenivano gli incontri fra lei e i designer? Come insomma vi sceglievate l’un l’altro?

MC  Un aneddoto, ritengo sia utile per far capire il rapporto talvolta non facile e persino tormentato con questi autori, riguarda i SITE. Sono stato diverse volte a propormi come produttore allo studio newyorkese perché conoscevo i loro progetti e mi piacevano molto, anzi ne intuivo ottime potenzialità di ricaduta sul piano del design di prodotto. James Wines, fondatore e presidente dei SITE – oltre che professore di filosofia alla Parson School of New York –, sosteneva invece che il lavoro di architettura realizzato dallo studio era su una scala talmente ridotta che un prodotto industriale gli appariva un’impresa quasi impossibile. Non era però un no definitivo. Sosteneva, infatti, che gli sarebbe comunque piaciuto cimentarsi in questo campo.
Dopo quattro o cinque viaggi frustranti in cui alle diverse promesse di pensarci seriamente non corrispondeva alcuna proposta reale, decisi finalmente di “sfidare” Wines sul suo stesso terreno. Arrivai così con la fotografia di un pezzo che si chiamava Quarry, cioè “cava”, costituito da un ideale parallepipedo in marmo di cui la porzione centrale era collassata e, da un cumulo di frantumi lapidei ammonticchiati alla base, s’ergevano ormai solo due residuali monconi a tutt’altezza. «Di questo tavolo», dissi a Wines, «mi sono permesso di fare già il prototipo. Ora le cose sono due: o me lo firmi e ti do le royalties; oppure ci scrivo “omaggio a SITE” e non ti dò un bel niente perché a quel punto il pezzo l’ho fatto io».
Dopo averlo osservato con attenzione Wines a un certo punto parve comprendere che non stavo affatto scherzando. Mi propose quindi di modificare leggermente il rapporto tra pieni e vuoti del prototipo. Contribuendo a ricalibrare i pesi e i volumi dell’insieme fece così suo il progetto e, implicitamente, accettò non solo di dare il via alla produzione del nuovo tavolo, ma cominciò anche a intravedere una futura modalità d’interlocuzione fra lo studio e la mia azienda. Successivamente infatti James Wine realizzò Mountain Range, un tavolo basso molto bello costituito da tre profili di marmo di colori diversi accostati.
Altra cosa importante del nostro “metodo” operativo finalizzato alla produzione era la necessità d’instaurare un rapporto tra progettista e artigiano che avrebbe realizzato il prodotto. Si trattava in realtà di una serie di figure e di contributi manuali diversi: tornitore, fresatore, lucidatore, ecc. Portavo così i progettisti presso i laboratori degli artigiani e da lì nasceva un dialogo, credo fruttuoso per entrambi.

James Wine - SITE, Quarry - tavolo, 1989, Casigliani | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani [x]

James Wine - SITE, Mountain Range - tavolo, 1989, Casigliani | © & courtesy Primaried Studio [x]

UR  La figura del patron aziendale è forse la più complessa da decifrare. Nella tessitura del profilo ideale dell’imprenditore di un’azienda design oriented, c’è un tratto mercantile, una componente istintiva e una strategica, una necessaria propensione all’ascolto dell’altro e una consapevolezza anche “meta-progettuale”, in grado cioè di valutare il valore e la fattibilità dei progetti proposti. Per definire il suo ruolo di “editore” di design quali talenti si attribuirebbe in primo luogo? Ovvero quali ritiene siano stati i più efficaci al successo e alla crescita di prestigio aziendale?

MC  Mi piace e ritengo appropriato per il mio ruolo il termine “editore”. La ricerca di un’identità complessiva, l’ostinazione nel far trapelare in ogni nuovo prodotto una coerenza di catalogo impone un’attenzione su più livelli. Quindi se da un lato è sempre opportuno far scaturire relazioni tra “esecutori” competenti e di lungo corso e intelligenze progettuali magari esordienti, ma anche per questo più votate all’indagine e alla sperimentazione della novità nel settore, occorre sempre un equilibrio di amalgama e una regia concertante che si può verificare e apprezzare anche a livello lessicale. Ad esempio ero io, quasi sempre, a suggerire il titolo per il prodotto, perché anche il nome doveva essere un’occasione per definire il senso del progetto, per far emergere le ragioni che avevano portato alla realizzazione di quel determinato prodotto in quelle determinate modalità formali, estetiche e materiali. Ma non era una ricerca astratta, realizzata per così dire “a tavolino”.
Talvolta il termine adeguato per un prodotto nasceva da un dialogo con amici. Ricordo il caso di un prodotto dei Vignelli – delle lampade a forma di antica torciera – la cui uscita sul mercato seguiva di qualche anno quella del tavolo Metafora #1. Quest’ultimo, sia per l’uso del marmo travertino, l’evidente allusione alle colonne dell’Impero Romano e l’abbinamento scelto nella presentazione (le Piazze d’Italia di De Chirico), aveva suscitato l’opinione diffusa che i nostri prodotti fossero ispirati a un’ideologia destrorsa. Perciò il richiamo al passato, rilevabile anche nelle nuove piantane, andava a mio avviso “tutelato”, ma occorreva un escamotage lessicale che ancora non riuscivo a cogliere. Parlandone in ufficio dicevo preoccupato a Vignelli: «Massimo, chissà cosa diranno adesso. Se ci hanno dato dei fascisti per la Metafora ora, secondo me, con queste torciere ci arrestano per apologia!». Era presente anche un mio carissimo amico, Gino Paoli, che disse: «Basta che le chiamate Wagneriane. Un nome col quale spiegate benissimo quello che avete voluto fare, di che epoca sono e a cosa si riferiscono». E così vennero chiamate.
Comunque, per non eludere la domanda circa i talenti necessari per fare il mio mestiere, dovrei premettere che, a mio parere, è sempre riduttivo cercare un’unica definizione, una cifra in grado di profilare l’attività di editore di prodotti di design. Si tratta di un misto di tante cose persino incongrue o inconciliabili: fiuto, esperienza, tenacia, accortezza, decisione, intraprendenza, cura del dettaglio, intuito, tempismo, capacità di relazione... Né credo che tali qualità vadano circoscritte al mero ambito delle pratiche professionali; più o meno tutti gli aspetti della vita ne sono coinvolti e giocano un ruolo non secondario nell’essere efficaci e ottenere risultati.
Una volta un ragazzo all’Università di Miami mi chiese: «Lei si sente più artista, designer o imprenditore?». A quella domanda risposi che ero piuttosto un miscuglio di queste tre forme di vita. E di altre, s’intende. Perché c’è anche una follia tutta mia nel fare quel che ho fatto, rompendo gli schemi, aprendo nuove vie progettuali e produttive. Perciò mi definirei un “ibrido”, o anche un “impuro folle”, una miscela non so nemmeno io quanto calibrata e riuscita di appetiti, curiosità e desideri. In gran parte esauditi con l’opportuna, e non secondaria, dose di buona sorte.

Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Wagneriana - torciera, 1989, Casigliani | © & courtesy Wannenes Art Auctions [x]

UR  Prima accennava ai ridotti budget aziendali che non le consentivano l’adozione del “filtro” dell’uomo di marketing. Un limite che è stato anche la fortuna di Casigliani perché le ha consentito di osare. Ma anche l’azzardo dell’imprenditore che sperimenta e non replica, così come la piccola dimensione dell’azienda, col tempo ha magari rischiato di crearle difficoltà sul piano comunicativo, finanziario, distributivo... Visti i riconoscimenti internazionali ottenuti e la qualità produttiva tuttora riscontrabile da chiunque, a cosa è da imputare la fine dell’attività produttiva dell’azienda?

MC  La storia della chiusura della mia azienda è dovuta a un problema commerciale. Nel senso che a un certo punto negli anni 1986-1987 vennero fuori qualcosa come una trentina di aziende che copiavano di sana pianta Metafora #1. Un produttore tedesco ebbe persino l’ardire di chiamarlo Casigliani table, segnalando come propria sede sulla brochure aziendale sia Köln che Pisa! Tramite un mio amico tedesco, all’epoca contattammo anche l’azienda. Questo amico finse di avere un casa in campagna e chiese delucidazioni su dove fosse possibile vedere il prodotto o la sede toscana dell’azienda. Alla domanda, fatta comunque con un accento insospettabile, risposero accampando una serie d’imbarazzate frottole, facendoci capire che la sede evocata era fittizia quanto il prodotto.
In genere, comunque, va detto che in primo luogo si trattava di brutte copie, che è il peggior danno per un’azienda. Forse l’unico limite mercantile di Metafora #1 era costituito dalla sua altezza. Si trattava di un tavolo basso (22 cm) – anche se all’epoca, occorre dire che il trend per l’altezza degli imbottiti era di scendere di anno in anno. Comunque sia, questa azienda tedesca realizzava gli elementi in marmo alti 32 cm. Ovviamente anche le basi aumentavano e il piano in cristallo, che nell’originale sovrastava senza difficoltà i supporti, nella copia li copriva a fatica perché per essere proporzionato avrebbe dovuto essere almeno due metri e mezzo di lato.
Nemmeno il ripetuto dileggio attuato tramite qualunque altro media ha il potere corrosivo della brutta copia. Anzi, in proposito ricordo il caso della poltrona Sacco di Zanotta che deve molta della sua fama e fortuna proprio alle disastrose sedute del Fracchia televisivo interpretato da Paolo Villaggio.
I prodotti non soffrono tanto le critiche e l’ironia rivolte su di essi quanto piuttosto l’indifferenza e l’omologazione. Ma è soprattutto la bassa qualità delle copie che danneggia l’originale cancellandone d’emblée, come un tratto di gomma, la reputazione acquisita. Le persone – e più sono peggio è – si trovano di fronte a una copia senza averne la minima contezza. Magari ne hanno visto immagini su cataloghi e riviste e, come talvolta accade anche ai visitatori di un museo, ritenendo d’essere di fronte all’originale, rimangono delusi e pensano: «Mi sembrava più bello». A lungo andare, se l’originale viene prodotto almeno 20-30 volte meno delle copie, non solo il mercato si satura, ma è l’interesse per quel determinato oggetto che finisce fatalmente col perdersi del tutto nel pubblico, perché nel mercato reale è ormai la copia banalizzata a rappresentarlo e “incarnarlo”.
Ed è anche il limite di un mercato che, con la mancanza di controlli adeguati, rende la sobrietà dei progetti minimalisti di successo le prime e più facilmente aggredibili vittime sacrificali della concorrenza sleale.

UR  Una questione rilevante, sempre per Santini, era ritrovare nella politica editoriale di Casigliani un ritorno a «considerare ancora il tipo di marmo impiegato». È un dato che può apparire non del tutto chiaro, forse perché oggi non è così evidente a che tipo di produzione si riferisca il critico. In quali prodotti dell’epoca (ma credo anche oggi) si poteva (e si può) percepire una tale disattenzione per la «materia-marmo»?

MC  In proposito vale quanto detto prima e per noi stessi che lavoravamo pressoché esclusivamente con il marmo. Qualsiasi progetto di prodotto, una volta sperimentato sul campo e realizzato ci appariva potenzialmente più bello, economico, o semplicemente più appropriato in un altro materiale, veniva abbandonato. E non si è trattato affatto di pochi, limitati casi. Anzi per alcuni anni il mio sogno segreto è stato quello di realizzare una mostra con tutti i prototipi che non ho messo in produzione. Una serie di oggetti ai quali, una volta constatatane l’inconsistenza, non abbiamo dato seguito perché dal nostro punto di vista non avevano senso.
Per ragioni di spazio, l’archivio ora è disperso presso amici e collezionisti, quasi il 95% di questi esemplari accantonati non è più immediatamente disponibile, per cui questo sogno è ormai irrealizzabile. Ma sarebbe stata un mostra interessantissima e, credo, per certi versi quasi più istruttiva di una mostra dedicata agli stessi progetti effettivamente portati sul mercato da Casigliani. Una mostra perfettamente coerente con l’afflato “ecologico” contemporaneo, perché se la scultura, almeno da Michelangelo in poi, va intesa soprattutto come arte del levare, l’eliminazione del superfluo, del sovrabbondante, di tutto quel che inutilmente pesante e materialmente costoso comporta il produrre è oggi un’esigenza sempre più evidente a molti.

UR  All’interno della parabola storica del progetto industriale, il terzo millennio rischia di manifestare in modo flagrante alcune cesure rispetto al passato. Una di queste è il protagonismo della tecnica che ha ormai incrinato definitivamente il rapporto antropologico con i materiali. Questi non sono ormai più dei contraltari esperienziali per l’artefice/progettista, ovvero non rappresentano più ambiti segnati da una durata, tramite la quale sviluppare una confidenza, apprendere pratiche opportune finalizzate alla crescita sapienziale e qualitativa del progetto come del prodotto e dell’artefice stesso. Alla crescita esperienziale attivata “a partire” dai limiti dei materiali utilizzati per realizzare il prodotto oggi va sostituendosi l’opportunità di applicare ai prodotti le performance consentite dai nuovi materiali proposti dalle branche più disparate dell’ingegneria bellico-spaziale, biologica (biomateriali e nanomateriali in primo luogo), materiali compositi, intelligenti ecc. Con una serie di conseguenze circa la memorabilità dell’odierna produzione (perché si tratta di materiali senza una reale storia né consolidata tradizione) che non è certo facile immaginare. Il contributo progettuale di Casigliani (per quanto impegnato in rimarchevoli riscritture ancillari, tattili, plastico-formali e arredativi dei prodotti) essendo ascrivibile al solco novecentesco della confidenza materica di tradizione millenaria è del tutto estraneo a questo trend crescente. Ritiene che oggi ci sia ancora spazio per esperienze paragonabili a quella che ha visto protagoniste le sue produzioni negli anni 70 e 80?

MC  Credo che rispondere a questa domanda non sia affatto facile. Ma nel farlo mi guida quella parte di me che è del mercante. Se un prodotto non ottiene una garantita possibilità di riproducibilità, laddove la mano dell’artigiano è troppo sofisticata, non c’è una reale possibilità. In primo luogo i prezzi salgono alle stelle. In secondo luogo gli artigiani che trent’anni fa c’erano ancora oggi non ci sono più né nella ceramica, né nel marmo, né nell’alabastro, né nel ferro, ecc. Quindi non so quanto si possa ritornare a un certo fenomeno di competenza fabbrile e consonanza materiale per gli oggetti di produzione “idealmente” industriale. Già all’epoca della loro prima uscita i lavori in ceramica disegnati da Sottsass costavano moltissimo, proprio come pezzi da artista di grande livello. Quindi, a mio avviso, non si tratta di una strada percorribile né allora né tantomeno ora: non è più design, ma arte. Il design è nato ed è segnato fin dalla sua origine da un anelito netto e preciso: immaginare, disegnare e progettare cose che è possibile riprodurre all’infinito abbassandone il prezzo. Se sono dei prodotti molto unici è un falso problema non è un progetto è un delirio.
Una volta Lazzotti mi fece vedere un tavolo bellissimo – Vietato bagnarsi – con delle pinne di pescecane che uscivano da un marmo a spacco naturale che sembravano le onde del mare. Ricordo che gli dissi: «Guarda Lazzotti che si sa già come va a finire. Finisce che ne produciamo due: uno lo compro io, uno lo compri te. E poi si fa festa». Perché, imprenditorialmente parlando, non è possibile che un tavolo abbia dei costi di questo tipo, delle difficoltà di trasporto e d’imballo (pesava qualcosa come 3 quintali e mezzo). Al contrario, Metafora #1 ha avuto un gran successo anche perché, logisticamente parlando, si trattava di quattro cartoni con la schiuma di protezione all’interno. Quattro cartoni di proporzioni adeguate pressoché ad ogni casa italiana, europea e di ogni continente del pianeta. E questi sono argomenti sostanziali, di opportunità che prescindono del tutto da questioni formali ed estetiche: rappresentano la grammatica e l’ordine del discorso in cui il design è alveato.

Giulio Lazzotti, Vietato bagnarsi - tavolino basso, 1980 ca, Cattelan Italia. Tavolino/scultura realizzato in edizione limitata numerata, lavorato a mano in marmo verde Apuano (base) e petit granit (pinne). Top in cristallo trasparente 12 mm [x]

UR  Mi sembra di capire che se i Vignelli sono stati certo importanti per Casigliani, Giulio Lazzotti rappresenta un po’ il compagno di una vita. Il contraltare col quale la frequenza e il reciproco rispetto consente persino lo scontro incessante. Anche perché la divergenza di opinioni è come inscritta nel ruolo antagonistico che le figure del designer e dell’imprenditore manifestano sovente nell’approccio al progetto.

MC  Sicuramente insieme Lazzotti Casigliani ha realizzato progetti eccellenti di successo. Come, ad esempio, la gamma Peanuts, una serie di vassoi e centritavola, oggi presente nella collezione permanente del MoMA di New York, in marmo Bardiglio e ardesia saldati insieme. Una serie bellissima venduta in migliaia, migliaia e migliaia di pezzi. Un prodotto indovinato sotto tutti gli aspetti che valorizzava la materia, il colore, ma sopra ogni altra cosa esaltava il senso del tatto. Toccare quei contenitori era un’esperienza sensuale inaspettata e incredibile, belli da toccare, accarezzare e da guardare.
Certo con Lazzotti ne abbiamo fatte di cose belle e il nostro rapporto era una sorta di unicum. Infatti gli dicevo: «Giulio, se non riesci ad andare d’accordo con me non vai d’accordo con nessuno. Vedi da te che in quello in cui credo ci butto tutto, l’anima e il profitto». Ma, lo ripeto, anche se bellissimo Vietato bagnarsi per me era un delirio, una sorta di miraggio dal punto di vista produttivo: tanto mirabile quanto unico e irripetibile.

Giulio Lazzotti, Peanuts - stoviglie, 1981, Casigliani. Tutti gli articoli della gamma (piatti, ciotole, ciotole coperte, vassoi, centrotavola, vasi, ecc.) sono realizzati in marmo Bardiglio Imperiale e ardesia levigata. (per le opere di Giulio Lazzotti conservate al MoMA di New York segnaliamo il seguente link collezione MoMA) [x]

001	Massimo Vignelli, schizzo del tavolo Metafora #1 - matita su carta, 11 3/4” x 8 1/4”, 1979 Box 270, Massimo and Lella Vignelli Papers | © & courtesy Vignelli Center for Design Studies - Rochester, New York (visualizza il documento originale)
002	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979 | In primo piano i quattro volumi euclidei in marmo (piramide in marmo Bianco P.; cubo in marmo Nero Marquinia; cilindro in marmo Travertino; sfera in marmo Mondragone) disposti al centro sotto il top in cristallo | © & courtesy Casigliani
003	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - supporti in marmo per tavolo basso, 1979, Casigliani | Solidi euclidei (cubo, sfera, cilindro, piramide) realizzati in marmo Nero Marquina | © & courtesy 1stdibs - Antique and Modern Furniture
004	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora - tavolo basso, 1979 | 2012 (ried.), Casigliani | Martinelli Luce | Schemi grafici (assonometria, viste frontali e veduta zenitale) del tavolo con piano in vetro (120 x 120 cm) | © & courtesy Martinelli Luce
005	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979, Casigliani | Versione monomaterica con top trasparente e solidi euclidei (cubo, sfera, cilindro, piramide) realizzati in marmo Nero Marquina | © & courtesy 1stdibs - Antique and Modern Furniture
006	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979, Casigliani | Scatto fotografico di Aldo Ballo utilizzato per la cover del n° 100 di “Casa Vogue” (novembre 1979). Accanto al tavolo (piramide in marmo Bianco P.; cubo in marmo Nero Marquinia; cilindro in marmo Travertino; sfera in marmo Mondragone) l'opera Piazza d'Italia di Giorgio De Chirico (1913) | © Archivio Aldo Ballo e Marirosa Toscani Ballo, courtesy Casigliani
007	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979, Casigliani | Catalogo con le 3 varianti dimensionali del top in cristallo: rettangolare (120 x 80 x 2 cm); quadrato piccolo (100 x 100 x 2 cm); quadrato grande (120 x 120 x 2 cm) | © & courtesy Casigliani
008	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora - tavolo basso, 1979 (ried. 2012) | Vista frontale del tavolo con i quattro volumi euclidei in marmo (piramide in marmo Bianco di Carrara; cubo in marmo Nero Marquinia; cilindro in marmo Travertino; sfera in marmo Rasotica o Emperador Dark) disposti sotto il top in vetro | © Benvenuto Saba & courtesy Martinelli Luce
009	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - supporti in marmo per tavolo basso, 1979, Casigliani | Solidi euclidei realizzati in marmo: piramide in marmo Bianco P.; cubo in marmo Nero Marquinia; cilindro in marmo Travertino; sfera in marmo Mondragone o Rasotica| © & courtesy MMD - MassModernDesign
010	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora - tavolo basso, 1979 (ried. 2012) | Ensemble misto dei supporti di sostegno del top in vetro con i quattro volumi euclidei così composti: piramide in marmo Bianco di Carrara; cubo in marmo Nero Marquinia; cilindro in marmo Travertino; sfera in marmo Rasotica / Emperador Dark | © & courtesy Wannenes Art Auctions
011	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979, Casigliani | Piano in cristallo e supporti di geometria euclidea in marmo (piramide in marmo Bianco P.; cubo in Nero Marquinia; cilindro in Travertino; sfera in Mondragone o Rasotica) | © & courtesy MMD - MassModernDesign
012	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979, Casigliani | Piano in cristallo e supporti di geometria euclidea in marmo (piramide in marmo Bianco P.; cubo in marmo Nero Marquinia; cilindro in marmo Travertino; sfera in marmo Mondragone o Rasotica) | © & courtesy MMD - MassModernDesign
013	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora - tavolo basso, 1979 (ried. 2012) | Vista frontale del tavolo con i quattro volumi euclidei in marmo (piramide in marmo Bianco di Carrara; cubo in marmo Nero Marquinia; cilindro in marmo Travertino; sfera in marmo Rasotica o Emperador Dark) disposti sotto il top in vetro | © Benvenuto Saba & courtesy Martinelli Luce
014	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979, Casigliani | Piano in cristallo e supporti di geometria euclidea in marmo (piramide in marmo Bianco P.; cubo in marmo Nero Marquinia; cilindro in marmo Travertino; sfera in marmo Mondragone o Rasotica) | © & courtesy MMD - MassModernDesign
015	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora - tavolo basso, 1979 (ried. 2012) | Vista dall'alto del tavolo con i quattro volumi euclidei in marmo (piramide, cubo, cilindro e sfera in marmo Nero Marquinia) disposti sotto il top in vetro | © Benvenuto Saba & courtesy Martinelli Luce
016	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - supporti in marmo per tavolo basso, 1979, Casigliani | Solidi euclidei (piramide, cubo, cilindro e sfera) realizzati in marmo Nero Marquinia | © & courtesy Primaried Studio
017	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979 | 2012 (ried.), Casigliani | Martinelli Luce | Vista dall'alto del tavolo con top traparente in vetro/cristallo e i quattro volumi euclidei (piramide, cubo, cilindro e sfera) realizzati in marmo Nero Marquinia | © & courtesy Drouot.com
018	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979 | 2012 (ried.), Casigliani | Martinelli Luce | Al centro, sotto il piano in vetro e supporti di geometria euclidea (piramide, cubo, cilindro e sfera) realizzati in marmo Travertino | © & courtesy Nordiska Galleriet
019	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979 | 2012 (ried.), Casigliani | Martinelli Luce | Le stesse forme euclidee (piramide, cubo, cilindro e sfera) realizzate in marmo Travertino della precedente immagine, sotto un piano in vetro di dimensioni inferiori e con una diversa disposizione | © & courtesy Stoop.jp
020	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora - tavolo basso, 1979 (ried. 2012), Martinelli Luce | Disposizione asimmetrica degli elementi nell’abbinamento “storico” che prevede la piramide in marmo Bianco di Carrara, il cubo in marmo Nero Marquinia, il cilindro in Travertino e la sfera in Rasotica / Emperador Dark | © & courtesy Stoop.jp
021	Massimo Vignelli, Brochure informativa di Metafora #1, Casigliani, 1979 (sx) / Vignelli Associates, Minicatalogo Metafora Coffee Table, Casigliani, 1981 ca (dx) | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
022	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora - tavolo basso, 1979 (ried. 2012) | Vista dall'alto del tavolo con i quattro volumi euclidei in marmo (piramide, cubo, cilindro e sfera in marmo Travertino) disposti al centro sotto il top in vetro | © Benvenuto Saba & courtesy Martinelli Luce
023	Vignelli Associates, Pagina interna del Minicatalogo Metafora Coffee Table, Casigliani, 1981 ca | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
024	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - supporto cilindrico in marmo Travertino, 1979, Casigliani | Primo piano del solido che, come racconta Maurizio Casigliani, editore e autori auspicano sia utilizzato «assolutamente sdraiato», poiché «rappresenta visivamente la fase conclusiva del potere di Roma nell’antichità, Infatti, essendo il Travertino il marmo romano per eccellenza, la disposizione “supina” del solido era un esplicito richiamo alla caduta dell’impero romano» (Maurizio Casigliani, Memorie di un editore. Il progetto fra copia e delirio, in Umberto Rovelli (a cura di), MuDeTo Collection VI (2022-’23), MuDeTo Edizioni, Firenze 2023 (vedi anche: sezione Testimonianze più sopra in questa stessa pagina). | © & courtesy Modern - ID
025	Vignelli Associates, Pagina indice interna del Minicatalogo Metafora Coffee Table, Casigliani, 1981 ca | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
026	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979, Casigliani | Primo piano dal basso del cubo in marmo Nero Marquinia e della piramide in marmo Bianco P. | © & courtesy InCollect
027	Vignelli Associates, Pagina interna del Minicatalogo Metafora Coffee Table, Casigliani, 1981 ca | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
028	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979, Casigliani | Primo piano dal basso della fascinosa texture del cilindro in marmo Nero Marquinia | © & courtesy 1stdibs - Antique and Modern Furniture
029	Vignelli Associates, Pagina interna (sez. Semantics/Semantica) del Minicatalogo Metafora Coffee Table, Casigliani, 1981 ca | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
030	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979, Casigliani | L’abbinamento “storico” dei solidi euclidei a supporto del top traslucido che prevede: la piramide in marmo Bianco P.; il cubo in marmo Nero Marquinia; il cilindro in marmo Travertino; la sfera in marmo Mondragone o Rasotica | © & courtesy InCollect
031	Vignelli Associates, Pagina interna (sez. Pragmatics/Pragmatica) del Minicatalogo Metafora Coffee Table, Casigliani, 1981 ca | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
032	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979, Casigliani | La sfera, realizzata, nella versione mista, in marmo Mondragone o Rasotica (e, più di recente, in Emperador Dark), è l'unico solido euclideo che Casigliani realizza di dimensioni leggermente inferiori (19,8/19,9 cm rispetto ai 20 cm degli altri supporti) consigliandone l'inserimento sotto il top solo dopo aver stabilizzato il piano trasparente sugli altri solidi, come si può rilevare negli schemi grafici informativi riprodotti più sotto [fig. 042]. | © & courtesy InCollect
033	Vignelli Associates, Pagina interna (sez. Syntactics/Sintattica) del Minicatalogo Metafora Coffee Table, Casigliani, 1981 ca | Con un peculiare effetto di mise en abyme nel minicatalogo è riportata in foto la pagina di un catalogo precedente [fig. 007] nel quale sono riportate le 3 varianti dimensionali del top in cristallo: rettangolare (120 x 80 x 2 cm); quadrato piccolo (100 x 100 x 2 cm); quadrato grande (120 x 120 x 2 cm) | © & courtesy Casigliani © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
034	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979 | 2012 (ried.), Casigliani | Martinelli Luce | Dettaglio del tavolo con in evidenza la piramide e il cilindro “supino” nella versione in marmo Travertino | © & courtesy Nordiska Galleriet
035	Vignelli Associates, Pagina interna (sez. Metafora Coffee Table) del Minicatalogo Metafora Coffee Table, Casigliani, 1981 ca | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
036	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979 | 2012 (ried.), Casigliani | Martinelli Luce | Vista dall'alto del tavolo: in primo piano la piramide e il cilindro “supino” nella versione in marmo Travertino | © & courtesy Nordiska Galleriet
037	Vignelli Associates, Pagina interna del Minicatalogo Metafora Coffee Table, Casigliani, 1981 ca | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
038	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora - supporti in marmo per tavolo basso, 1979 (ried. 2012), Martinelli Luce | Solidi euclidei (piramide, cubo, cilindro e sfera) realizzati in marmo Bianco di Carrara | Come si evince anche da questa ardita sovrapposizione di volumi, sotto il profilo affettivo, le Metafora #1 e #2, ideate dai Vignelli per Casigliani, sono progetti assolutamente sovrapponibili. Entrambe, infatti, corrispondono con efficace sintesi all’umano anelito di confrontarsi con l’esercizio della libertà “rigorosamente” offerta dal gioco | © & courtesy courtesy LICHT
039	Vignelli Associates, Pagina interna del Minicatalogo Metafora Coffee Table, Casigliani, 1981 ca | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
040	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #1 - tavolo basso, 1979, Casigliani | Riunite sotto il piano in cristallo le quattro forme euclidee (piramide, cubo, cilindro e sfera) realizzate in marmo Mondragone o Rasotica | © & courtesy Home Union - New York City
041	Vignelli Associates, Pagina interna del Minicatalogo Metafora Coffee Table, Casigliani, 1981 ca | Ritratto degli autori Lella Vignelli (Elena Valle) e Massimo Vignelli | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
042	Catalogo Casigliani, Schemi con figure stilizzate che illustrano le migliori pratiche per la manipolazione dei solidi euclidei in marmo, metà anni 80 ca, Casigliani | Su ispirazione degli autori, questi elaborati dell’ufficio Casigliani, raccolgono alcune istruzioni elementati per la “installazione” del tavolo Metafora #1. I primi due disegni stigmatizzano altrettanti errori comuni di posizionamento da evitare in modo tassativo: a) collocare i solidi (quasi fossero “gambe” normali) alle quattro estremità o comunque vicino al margine esterno del top in vetro/cristallo; b) utilizzare verticalmente il cilindro (la cui altezza è pari al diametro) ossia posare al suolo il solido sulla base piatta. Un terzo disegno, riportando un esempio approvato, contribuisce a chiarire il senso delle prime due eccezioni. Con i restanti tre schemi si descrive, quindi, la scansione temporale delle fasi della “messa in opera”: 1) il piano trasparente viene posizionato sulla composizione prescelta dei tre volumi alti esattamente 20 cm, ossia la piramide, il cilindro e il cubo; 2) si inserisce sotto il top la sfera, collocabile agevolmente anche in posizione centrale per rotolamento dato che, come più sopra ricordato, la dimensione del suo diametro è leggermente inferiore (19,8/19,9 cm) | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
043	A sinistra: Massimo Vignelli, schizzo per shopping bag di Casigliani raffigurante l'immagine del tavolo Metafora #1, matita su carta, 8 1/2” x 11 1/2”, firmato MV1987 (copia su fax datato 5 maggio 1989) | Box 270, Massimo and Lella Vignelli Papers | © & courtesy Vignelli Center for Design Studies - Rochester, New York (visualizza il documento originale) A destra: Massimo Vignelli, disegno di Metafora #2 di Casigliani per Philip Johnson, matita su carta, 9” x 12”, 1981 | Box 456, Massimo and Lella Vignelli papers | © & courtesy Vignelli Center for Design Studies - Rochester, New York (visualizza il documento originale)
044	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #2 - gioco a 12 elementi in marmo Travertino, 1979 (1981), Casigliani | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
045	Lella Vignelli (Elena Valle), Massimo Vignelli, Metafora #2 - gioco a 12 elementi in marmo Travertino, 1979 (1981), Casigliani | © & courtesy Archivio Maurizio Casigliani
046	Una sequenza tratta dal film Piccolo Buddha (Little Buddha, 1993) di Bernardo Bertolucci | Al centro il tavolo Metafora #1 nella versione in marmo Bianco P. “reinterpretato” da due monaci tibetani in chiave orientale | © & courtesy CiBy 2000, Serprocor Anstalt, Recorded Picture Company (RPC), Sahara Company
047	Un'altra sequenza tratta dal film Piccolo Buddha (Little Buddha, 1993) di Bernardo Bertolucci | Il tavolo Metafora #1 (qui nella versione in marmo Bianco P.) si manifesta progetto sapiente anche sotto il profilo interculturale: l'altezza ridotta, lo stile sobrio, il libero posizionamento dei supporti ne lascia infatti intuire una congenialità d'uso anche in contesti non occidentali o misti, come in questo caso, dove da un lato i monaci tibetani siedono direttamente a terra mentre la padrona di casa è seduta su un pouff imbottito | © & courtesy CiBy 2000, Serprocor Anstalt, Recorded Picture Company (RPC), Sahara Company

1979 Metafora #1 - tavolo basso 

Ideato negli USA da Lella e Massimo Vignelli e realizzato in Italia (con tempi aziendali da record) da Maurizio Casigliani, questo sistema di elementi (un piano in vetro e quattro supporti di geometria euclidea in marmo) da assemblare in tavolo basso, viene presentato al pubblico per la prima volta al Macef autunnale e, immediatamente dopo, al Salone del Mobile di Milano nel settembre 1979. Immortalato sulla copertina di “Casa Vogue” del novembre dello stesso anno diventa ben presto un best seller del neonato marchio Casigliani dedicato a oggetti di arredo di cui Metafora #1 «anticipa e già contiene alcuni caratteri costanti nella produzione» (Pier Carlo Santini). In particolare per la ricerca esplicita di «soluzioni non troppo precarie sul piano del gusto» volte a «esaltare» le proprietà del marmo in quanto «materia durevole per antonomasia» (Pier Carlo Santini). I quattro solidi ben visibili sotto il piano in vetro «sono come pezzi d’un gioco spiritoso e bizzarro, nonostante l’ascendenza euclidea» (P.C. Santini). Elementi in gioco la cui libera disposizione è vincolata esclusivamente da gravità e leggi della statica. Tutti i sostegni «possono essere realizzati con un’unica qualità di marmo, ma anche con qualità diverse, variamente combinate e combinabili» (P.C. Santini). Le quattro versioni ormai canoniche di Metafora #1 sono: le tre monomateriche in marmo Bianco di Carrara (marmo Bianco P.), Nero Marquinia, Travertino e l’abbinamento “storico” che prevede la piramide in marmo Bianco di Carrara (marmo Bianco P.), il cubo in marmo Nero Marquinia, il cilindro in Travertino e la sfera in marmo Mondragone o Rasotica (oggi Emperador Dark). In origine le varianti dimensionale del top vitreo erano almeno 3: rettangolare (120 x 80 x 2 cm); quadrato piccolo (100 x 100 x 2 cm); quadrato grande (120 x 120 x 2 cm). L’altezza massima dei solidi come il diametro del cilindro era pari a 20 cm, mentre il diametro della sfera era leggermente inferiore (19,8/19,9 cm) per un peso complessivo dell’ensemble finale di circa 140 Kg.


Materiali: vetro e marmo


Dim. Top: 120 x 120 x 2 [h] cm / 120 x 80 x 2 [h] cm / 100 x 100 x 2 [h] cm


Peso Top: 55 kg


Dim. Cubo: 20 x 20 x 20 [h] cm


Dim. Piramide: 20 x 20 x 20 [h] cm


Dim. Cilindro: 20 [Ø] x 20 [h] cm


Dim. Sfera: 19,8/19,9 [Ø] cm


Peso Solidi: 17/22 kg


Varianti Monomateriche: Bianco di Carrara (marmo Bianco P.) / Nero Marquinia / Travertino


Abbinamenti Solidi/Marmo per Variante Mista:
• Piramide: Bianco di Carrara (marmo Bianco P.)
• Cubo: Nero Marquinia
• Cilindro: Travertino
• Sfera: Mondragone o Rasotica (Emperador Dark)

1934–‘16	name:	Lella Vignelli (Elena Valle)
1931–‘14	name:	Massimo Vignelli

1979-‘02	name:	Casigliani
1950	name:	Martinelli Luce (riedizione 2012)

1992-‘93	Mostra Design: Vignelli, Musée des Arts Decoratifs Palais du Louvre - Paris [F]
...	Collezione permanente Die Neue Sammlung - Munich [D]

	Piccolo Buddha (Little Buddha), Bernardo Bertolucci, 1993
2023	© video: Umberto Rovelli
	Interior Design: The New Freedom: Massimo and Lella Vignelli interview by Barbaralee Diamonstein, 1981
2008	© video: DukeLibDigitalColl

2022	Tavolo Metafora - scheda tecnica Martinelli Luce (photo: Benvenuto Saba), Lucca
2021	Elena Parmegiani, La storia del tavolo Metafora: un oggetto cult del design, “Velvet Mag”, 25 luglio
2015	Costantino Ceccanti, Il design litico protagonista della mostra Creativa Produzione alla Fondazione Ragghianti, “Architetture di pietra”, 22 settembre
2015	Alessandra Acocella, Casigliani, in Elisabetta Trincherini, Davide Turrini (a cura di), Creativa Produzione. La Toscana e il design italiano 1950-1990, Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Lucca
2015	Davide Turrini, L’arcano del marmo. Peculiarità toscana, identità del design italiano, in Elisabetta Trincherini, Davide Turrini (a cura di), Creativa Produzione. La Toscana e il design italiano 1950-1990, Fondazione Centro Studi sull’Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, Lucca
2013	Davide Turrini, Un secolo di design litico in Italia. Ricostruire il contesto del progetto contemporaneo, “Architetture di pietra”, 31 ottobre
2013	Davide Turrini, Pier Carlo Santini e il design litico, “LUK”, 19
2013	Davide Turrini, Opera e serie in Enzo Mari. Progetto e produzione tra arte industria e artigianato, “Senzacornice” , 7
2012	Tavolo Metafora - brochure Martinelli Luce (photo: Benvenuto Saba), Lucca
2007	Massimo Vignelli, Lella Vignelli (ed. Jannelle McCulloch), Vignelli: From A to Z, The Images Publishing Group Pty Ltd., Mulgrave, Victoria (Australia)
2003	Giuliana Gramigna, Repertorio del design italiano per l'arredamento domestico 1950-2000, Ed. Umberto Allemandi & C., Torino
1995	Giovanna Uzzani (a cura di), Il marmo. Laboratori e presenza artistiche nel territorio apuo versiliese dal 1920 al 1990, m&m, Firenze
1990	Germano Celant (a cura di), Design: Vignelli, Rizzoli, New York [USA]
1989	Pier Carlo Santini, Nota su Metafora 1, testo introduttivo al catalogo Casigliani, Casigliani Ed., Marina di Pisa - Pisa
1987	“Interni Annual. La Casa”
1979	“Casa Vogue” 100, novembre

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