SISTEMA SAPI, MODULI MPL/MAPI, PL, MCO, MSS
La stesura di questo testo non sarebbe stata possibile senza l’aiuto di Massimo Ruffilli, che l'autrice ringrazia sentitamente per la disponibilità.
Presentare il SAPI - Sistema Abitativo di Pronto Intervento progettato da Pierluigi Spadolini fra il 1982 e il 1983 potrebbe richiedere un lungo discorso o ridursi a una breve scheda, entrambe soluzioni percorribili ma poco convincenti, l’una per attrarre il lettore contemporaneo, poco incline a sottomettersi alle logiche di perversa minuziosità degli storici, l’altra per restituire importanza a un progetto poco noto e a un prodotto purtroppo dimenticato. Pur proponendomi un accettabile compromesso fra le due impostazioni, è necessario predisporre un quadro di riferimento per riportare lo studio alla sua pregnanza e cercare di spiegarsi il suo amaro destino.
L’abitare “provvisorio” fra mercato e utopia
Il tema tipologico che esso ha affrontato – quello dell’abitazione provvisoria d’emergenza – è stato uno dei più sentiti nel panorama della ricerca architettonica del Novecento, legandosi, per risalire alle sue radici, alla problematica sull’Existenzminimum degli anni Venti ma prendendo l’avvio con gli studi americani degli anni Quaranta sul problema di garantire un alloggio ai sinistrati dai bombardamenti bellici. Quello fu il punto di partenza di ulteriori studi nel secondo dopoguerra, solidali con le contemporanee ricerche sulla prefabbricazione edilizia, concentrati sulla sperimentazione di strutture leggere metalliche ampliabili e trasportabili che hanno visto architetti – americani, europei e giapponesi – impegnarsi con proposte fattibili, seppur non sempre arrivate al successo della produzione. Perché la soluzione del problema imponeva l’assunto che solo con l’impegno di una produzione industriale in officina si potesse attuare la tesi progettuale. Quindi era necessario che il partner industriale fosse coinvolto e consenziente. Questo, come spesso capita, fu molto più problematico e ce lo possiamo spiegare.
Se riflettiamo sul significato di “provvisorio”, il termine implica – e tutti possiamo concordare – le accezioni di temporaneità, di sostituibilità, portate volendo al limite della precarietà. Nell’ambito abitativo, il suo senso va a comprendere insediamenti abitativi posti da una domanda eccezionale o imprevista o transitoria che esula, per motivi diversi, dai processi di edificazione tradizionali. Una domanda che implica però due diversi percorsi: quello di rispondere a richieste oggettive e prevedibili, con un loro proprio mercato che indirizza le possibili, e diverse, risposte, e quello di fronteggiare una situazione d’emergenza, ipotetica e imprevedibile. Nel primo caso ricorrono le tante situazioni poste dal turismo, innanzi tutto da quello itinerante, dall’allestimento di cantieri, dalla predisposizione di alloggiamenti per la Difesa e per corpi operativi dello Stato, dall’organizzazione di strutture di servizio di vario genere per ogni tipo di evento o di situazione. Nel secondo caso, invece, lo scenario è una situazione di calamità improvvisa da affrontare nei suoi bisogni, nella sua urgenza, nelle sue difficoltà logistiche e nel rispetto delle persone vittime della catastrofe.
Si tratta chiaramente di due strade divergenti, e quale sia, delle due, quella scelta dal mondo dell’impresa è facile indovinarlo perché il primo quadro di riferimento ha un suo profilo preciso, richieste chiare, se non semplici, da assolvere, una sua continuità di domanda a fronte di un ventaglio di risposte simili, volendo complementari. Inoltre quelle risposte, dalla roulotte al container variamente pensati nella loro sistemazione interna, diventavano al bisogno – e in assenza di altro – soluzioni, non certo ideali ma immediatamente spendibili, per la situazione d’emergenza. Roulotte e container potevano trasmigrare con naturalezza o ineluttabilità ad assolvere quei diversi problemi visto che, almeno sulla carta, garantivano quei requisiti che essa impone: risposta veloce, per la disponibilità di scorte di magazzino o per la loro rapida producibilità, facilità di trasporto e di installazione. Poco interessa nell’immediatezza di un’urgenza che essi siano stati pensati per altre condizioni, sia pur provvisorie, che non espletino tutte le necessità che le condizioni di calamità comportano e soprattutto che presentino un comfort abitativo basso, come se il prolungato periodo d’impiego previsto sia una variabile secondaria.
Questa è in grande sintesi la situazione italiana alla fine degli anni Settanta dal punto di vista della realtà imprenditoriale, per altro purtroppo rimasta più o meno invariata ancor oggi. Il libro di Corrado Latina del 1988, Sistemi abitativi per insediamenti provvisori, radiografa un repertorio di piccoli produttori numerosi, dai profili non precisamente definiti, e soprattutto «fluttuanti, con una spiccata tendenza […] alle riconversioni produttive», guidata dall’immediato interesse economico [01]. Dal punto di vista del mondo architettonico, invece, il tema dell’abitazione provvisoria legata all’emergenza avrebbe dovuto essere affrontato con un pensiero progettuale prossimo, per sensibilità, a quello della casa tradizionale, ma con un’impostazione di processo attuativo divergente da quello dell’edilizia tradizionale, e della prefabbricazione edilizia, in pratica con lo stesso approccio che qualifica lo studio di un prodotto da parte di un industrial designer. Qualità questa che mancava ai nostri progettisti, esclusi quei pochi che si cimentavano anche nella “piccola scala” di progetto, come Alberto Rosselli, Marco Zanuso e Richard Sapper avevano dimostrato alla mostra di New York del 1972 – Italy, the New Domestic Landscape – nella sezione Design as Postulation, benché i loro futuribili prototipi di case mobili non ipotizzassero una particolare situazione d’intervento o uno specifico destinatario. Insomma, nell’ottica compositiva, l’argomento risultava affascinante e degno di considerazione ma, mancando uno stimolo preciso, una situazione concreta di committenza, una serie di dati di riferimento che vincolassero la risposta, si concretizzava in ipotesi al limite della concretezza o in esercizi sentiti nella loro urgenza, intellettuale e sociale. Ma chi avrebbe dovuto essere il committente che avrebbe potuto mettere in atto e incanalare quella disponibilità alla ricerca?.
Vulnerabilità territoriale e incertezze normative
Qui si apre l’altro lato dello scenario: se l’imprenditore risulta sordo alle istanze dell’emergenza per un corretto, e giustificabile, calcolo di convenienza, se il progettista è in una condizione di disponibilità utopica, perché mutilata da un concreto incarico, meno perdonabile è l’indifferenza del mondo della politica e degli apparati statali, nazionali e locali, verso quelle azioni utili a circoscrivere i danni delle calamità naturali. La condizione di accidentalità di una calamità, quand’anche riguardasse i soli terremoti, è un motivo che non giustificava, né giustifica, l’inerzia del burocrate. L’Italia è terra interessata da un’attività sismica importante e ripetuta nel tempo, dovuta a specifiche condizioni geologiche e geografiche. E che tali fenomeni siano ineludibili ce lo racconta la costanza ravvicinata con cui si ripropongono; basta in questo senso scorrere i siti che elencano quelli avvenuti nel passato [02].
Sarebbe spettato o spetterebbe ai nostri governanti innanzitutto una corretta gestione dell’ambiente anche solo in chiave strategica, per precorrere l’uso irrazionale del territorio con norme che riducessero e riducano lo stato di rischio. Perché la pericolosità di un evento naturale disastroso, con tutte le sue conseguenze in termini di perdite umane e di danni materiali, è accentuata dalla vulnerabilità di un sito, determinata da tutta una serie di fattori riconducibili a decisioni umane inavvedute e procrastinate. E inoltre avrebbe dovuto spettare loro, o spetterebbe loro, una predisposizione degli interventi immediatamente successivi all’evento di catastrofe naturale per ridurre i problemi e i disagi delle popolazioni colpite, per contenere i costi sociali ed economici dei disastri. È vero che – riferendoci al periodo che stiamo trattando – esisteva la legge 996 dell’8 dicembre 1970, nata dall’evidenza dell’inadeguatezza della struttura centrale dei soccorsi in occasione tanto dell’alluvione di Firenze del 1966 che del terremoto del Belice del 1968, ma disciplinava esclusivamente il momento dell’emergenza e non prospettava una struttura operativa permanente, reale, a disposizione né tanto meno una visione a lungo termine degli interventi.
In questo scenario di assenza di interesse per una prevenzione e di conseguenti predisposizioni fattuali di intervento, a distanza di quattro anni avvengono in Italia due terremoti gravissimi. Con epicentro tra i comuni di Gemona e Artegna in Friuli, il 6 maggio 1976 [03], alle ore 21 e 12 secondi, la terra trema per cinquantanove secondi. E trema nuovamente il 23 novembre 1980 alle ore 19,34 per un minuto e venti interminabili secondi, con epicentro in Irpinia. In entrambi i casi le conseguenze sono morti, tanti, paesi quasi interamente rasi al suolo, altri gravemente danneggiati e isolati, interruzione di ogni comunicazione che dia consapevolezza sulla reale dimensione degli eventi e sulla loro estensione territoriale, ritardi e approssimazione nei primi soccorsi.
La gestione commissariale dell’emergenza
L’urgenza e la drammaticità della situazione friulana impongono al governo di istituire subito, pur nell’incertezza normativa che non disciplinava questo ruolo e i suoi effettivi poteri, una figura di riferimento che accentrasse ogni decisione, pianificasse e coordinasse ogni operazione di assistenza ai superstiti e di intervento sul territorio leso. Giuseppe Zamberletti fu il parlamentare scelto per questo compito di Commissario straordinario, che svolse con efficacia nonostante la legge allora in vigore ne limitasse i poteri e li delimitasse alla sola “primissima emergenza” [04].
Benché egli si ponesse seriamente «il problema operativo di come far passare alla popolazione il periodo transitorio verso una fase di più normale sistemazione, pur ancora transitoria ma accettabile, che avrebbe compreso l’autunno e l’inverno successivi», fu costretto a lasciare il suo incarico il 25 luglio perché esauriti i doveri emergenziali stabiliti dalla norma esistente. Le due, successive, sempre terribili, scosse, del settembre 1976, riportarono Zamberletti sulla scena friulana «ma stavolta con poteri molto più ampi e di carattere eccezionale, […] poiché si trattava di saldare ormai la fase di soccorso con quella più complessa della ricostruzione»[05].
Il programma messo a punto, anche in seguito alle nuove distruzioni intercorse, implicò lo spostamento delle popolazioni – 40.000 persone – in alberghi della costa per superare l’inverno, la rapida realizzazione di alloggi prefabbricati – 10.500 – dove poi far rientrare gli sfollati, il reperimento di migliaia di roulotte per garantire la permanenza in zona di chi doveva restarci per motivi di lavoro, visto che era stato deciso, dagli stessi friulani, di dare la priorità della ricostruzione agli edifici destinati alle attività produttive, per permettere una veloce ripresa economica. L’impeccabile gestione dell’operazione in tutte le sue fasi si concluse il 30 aprile 1977 con il “reinsediamento” delle persone nei loro comuni, garantendo al contempo all’industria turistica della costa di non perdere l’attività turistica dell’estate, e con l’avvio del percorso della reale ricostruzione dei siti.
Giuseppe Zamberletti viene nuovamente coinvolto all’indomani del terremoto del novembre 1980, un sisma ancor più drammatico e catastrofico per estensione – coinvolgendo Basilicata, Puglia e Campania – e danni: tremila i morti, novemila i feriti, trecentomila i senzatetto. Nominato Commissario straordinario del Governo il 25 novembre, mette fine al caos dei primi giorni e avvia la macchina dei soccorsi con le competenze acquisite nella precedente esperienza. In pochi mesi riesce a superare la fase dell’emergenza con la consueta risolutezza e determinazione, sua e di quanti con lui collaborarono, seppur non esente da critiche. Ma queste doti, finito come previsto lo stato immediato d’urgenza, poco poterono nel prosieguo della vicenda.
Verso una governance territoriale
Il modello quasi paradigmatico della ricostruzione in Friuli, che aveva legato il recupero ad una politica di sviluppo territoriale, alla riattivazione dei settori produttivi e al coinvolgimento delle comunità locali, non riesce a trovare applicazione in quest’area socialmente così diversa [06].
Ne conseguirono infiniti ritardi nel recupero del patrimonio edilizio e una faticosa lentezza nel processo di ricostruzione, scanditi da innumerevoli speculazioni e consistenti infiltrazioni della criminalità organizzata, oggetto poi di una, inutile, Commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Oscar Luigi Scalfaro. Un capitolo buio della storia italiana che ha però un suo risvolto positivo. In quei drammatici giorni matura nel politico Zamberletti la necessità di una legge che superi quella esistente e affronti con visione diversa il concetto di protezione civile, non limitandolo al solo soccorso e alla mera predisposizione degli interventi e al loro coordinamento quando si presenta una calamità, ma allargandolo ai concetti di tutela, di previsione e prevenzione, con una struttura stabile ed efficiente che abbia personale formato e capace di intervenire con competenza e rapidità sui vari scenari di rischio. Il disegno di legge è del febbraio 1982. Avrà un iter parlamentare lungo che arriverà allo stato di legge solo nel 1992, benché nel frattempo si creino subito, per decreto, un Dipartimento operativo, un Fondo economico e gruppi scientifici di ricerca.
L’ipotesi di un sistema abitativo di pronto intervento
Questo è il primo risvolto positivo da ascrivere a Zamberletti, determinante, perché significava interrompere e contrastare l’inerzia del mondo politico. Ve ne è però un secondo che, dal nostro punto di vista, è ancor più importante, maturato dalla sua riflessione sui problemi affrontati prima in Friuli e poi in Irpinia per dare alloggio ai senzatetto: il difficile reperimento di strutture provvisorie – tende, roulotte, container – che andavano velocemente rinvenute, a volte perfino requisite, e trasportate nei vari siti a dispetto dell’interruzione dei collegamenti – e il loro costo: tanto materiale, dato che non potevano essere riutilizzate dopo usi che spesso si prolungavano nel tempo, quanto sociale, per l’insoddisfazione delle famiglie per quelle soluzioni frequentemente inospitali e precarie. Zamberletti è convinto che il primo stadio dei soccorsi non possa evitare il ricorso alla tenda, ma è altrettanto convinto che questo strumento, veloce da approntare per dare un ricovero immediato, debba limitare il proprio utilizzo a pochi giorni per essere poi sostituito da una modalità che prefiguri stabilità e permanenza in attesa della ricostruzione effettiva. In altre parole, uno strumento già predisposto, che possa essere organizzato con rapidità ed efficienza, a ricostruire il senso di un insediamento, ed escluda quelle strutture provvisorie, delle quali si diceva, come quelle successive, prefabbricate, sempre transitorie, non sempre migliorative della qualità abitativa soprattutto in un tempo d’uso che si prolungava per anni [07].
L’idea di Zamberletti era quella di saltare tutti questi diversi passaggi – e il loro non indifferente costo, in termini materiali e sociali – per avere un sistema abitativo predisposto, su cui contare in tempi rapidi, con standard qualitativi alti, grande flessibilità organizzativa, facilità di montaggio, in grado di ricreare anche emotivamente la consapevolezza di una comunità, e che fosse gestito e controllato dallo Stato, a garanzia della sua efficienza.
Da uomo di istituzioni, Zamberletti si rivolge per la sua richiesta, fra il 1980 e il 1981, a quella holding delle partecipazioni statali esistente, che sembrava l’interlocutore più affidabile se non il più teoricamente interessato a intercettarne l’urgenza e la necessità: quell’Italstat, Società Italiana per le Infrastrutture e l’Assetto del Territorio, costituita nel 1968 dall’IRI, la quale controllava e presidiava, per mezzo di società partecipate, la realizzazione e la manutenzione di opere pubbliche, da ogni tipo di infrastruttura all’edilizia pubblica e di servizio [08]. Suo amministratore delegato, dal 1974, era Ettore Bernabei, persona con un profondo senso di responsabilità civile, quella che aveva evidenziato nei molti anni di direzione della Rai, e del bene comune, e lungimirante nella sua visione strategica di utilizzare la società pubblica come mezzo per modernizzare il paese e imporlo all’attenzione internazionale quale realtà operativa utilizzabile in grandi progetti infrastrutturali.
All’Italstat, Bernabei aveva messo in piedi, per essere aiutato nelle sue decisioni, un comitato scientifico di esperti [09], la provata competenza delle quali copriva tutti i settori presidiati dalla società. Ad esse viene girata la richiesta di Zamberletti, non facile né nuova – come già si diceva – per il mondo del progetto.
Nel gruppo di consulenti, come esperto di industrializzazione edilizia, era presente Pierluigi Spadolini, architetto, con una felice e lunga pratica di industrial designer, docente universitario a Firenze, che aveva animato la nascita di un nuovo settore scientifico, quello della Tecnologia dell’Architettura, per innervare di una diversa identità quella disciplina di mero supporto alla pratica progettuale e farla assurgere a fattore determinante non solo del processo compositivo ma di tutta la trasformazione dell’ambiente costruito grazie alle relazioni ben più complesse – non solo tecniche, ma politiche, economiche, sociali – che essa implicava e poteva instaurare.
Approccio industrial e analisi del contesto internazionale
È Spadolini, forte delle sue ricerche nell’ambito dell’edilizia industrializzata e di quella d’emergenza, che convince Bernabei ad accogliere la richiesta, rendendosi lui stesso disponibile allo sviluppo del progetto, nonostante la sua implicita sfida. Perché di sfida si trattava. Zamberletti aveva idee chiare, nelle sue pretese di committente, circa l’unità abitativa che prefigurava: voleva che suggerisse l’idea di casa e come una casa avesse un ingresso protetto ed emotivamente definito; che fosse semplice da trasportare con ogni possibile mezzo, cioè su gomma o su rotaia – e quindi rispettando la sagoma limite dei veicoli normalmente adibiti a questa funzione – o perfino aviotrasportabile con elicottero, qualora le condizioni ambientali del luogo sinistrato presentassero danni alle infrastrutture; che fosse pronta all’uso, in altre parole tanto producibile in tempi rapidi quanto immagazzinabile e disponibile in qualsiasi momento; che fosse facile da montare senza dover ricorrere a personale specializzato; che fosse riutilizzabile. Pretese corrette che dimostravano le pertinenze da lui maturate, ma che rendevano il compito progettuale, già complicato, di gran lunga più complesso.
Si creano subito due commissioni di ricerca istruttiva, una, promossa da Tecnocasa – una società di studio sui sistemi per l’edilizia industrializzata, facente capo all’Italstat –, affidata a Nicola Sinopoli, Giuseppe Turchini ed Ettore Zambelli, per affrontare il tema dell’emergenza a largo raggio, e una, voluta proprio da Bernabei, condotta sul campo, assegnata a Massimo Ruffilli e Flavio Tito, per raccogliere esempi internazionali di reali case prefabbricate, meglio se ampliabili e aviotrasportabili, che fornissero suggerimenti di partenza per il progetto spadoliniano. Questo gruppo, che visita aziende dedicate alla loro realizzazione e commercializzazione negli Stati Uniti e in Canada, ma anche in Gran Bretagna e in Francia, riporta una ricca casistica in termini numerici, seppur uniforme nelle risultanze. Infatti nella realtà statunitense e canadese era normale e di grande popolarità ricorrere ad alternative abitative mobili, usandole come permanenti, dato il loro costo contenuto. Sebbene la maggior parte degli esempi raccolti fossero dei semplici e angusti container, due casi proponevano delle soluzioni di espansione della metratura, seppur limitate a un lato solo. Questi, uno francese e uno americano, risultarono interessanti per Spadolini come punto di partenza per la sua riflessione progettuale, soprattutto per il ricorso al sistema di rotazione delle pareti che, a suo giudizio, era l’unico percorribile per evitare inconvenienti meccanici determinati da eventuali agenti atmosferici.
Ma un altro aspetto utile venne da questi materiali: la conferma che bisognasse affrontare l’obiettivo produttivo con logiche di produzione industriale. Il progetto non doveva essere impostato con le abituali metodiche della prefabbricazione edilizia, pesante o leggera che fosse, ma con quelle di un prodotto industriale vero e proprio, come fosse un’automobile o un frigorifero: in altre parole, una casa, sì, ma interamente realizzata in fabbrica, realtà di per sé inesistente. E tema che poteva essere elaborato solo da un progettista che, pur affrontando il tema abitativo, non lo avvicinasse da architetto ma da industrial designer, e che avesse competenza e dominio del significato e delle procedure della produzione industriale. Spadolini si impone, quindi, di ragionare da architetto per quanto riguarda i requisiti ambientali – di fruibilità, di standard dimensionali, di dotazione – e la qualità abitativa dell’unità, da tecnologo per quel che comprende la predisposizione delle componenti di autonomia funzionale e di servizio del complesso, da designer per la materiale prefigurazione del progetto nell’ottica delle sue tecnologie costruttive, dei materiali e pertanto della sua producibilità industriale.
Un sistema abitativo comunitario
L’idea progettuale di Spadolini si concentrò quindi sull’ipotesi di una unità ampliabile che triplicasse la sua superficie, partendo da quel vincolo dimensionale dato dalla sagoma limite del veicolo di trasporto su gomma, che imponeva una larghezza entro i 2,55 metri. La struttura da ideare doveva rispondere a modalità di fabbricazione industriale, pensata per lo più in metallo e materie plastiche, rapida da produrre e da installare, facile da trasportare e da mettere in opera, recuperabile, manutenibile, con un buon rapporto costo/durata, finita in fabbrica, chiusa in fase di trasporto ma espandibile in fase di esercizio. Tuttavia Spadolini non si ferma qui: il suo modulo doveva essere così flessibile da configurarsi sia come abitazione, e differenziata per consistenza di nucleo familiare, sia come ogni altro edificio utile alla vita di una società, divenendo alla bisogna scuola, chiesa, banca, ufficio postale, ambulatorio, negozio, grazie a elementi di connessione che collegando più unità assicurassero quelle diverse richieste di prestazione. Naturale, poi, che dovessero essere previsti, in attesa di una realizzazione permanente dei sistemi infrastrutturali, altri moduli che garantissero la raccolta dei liquami, la distribuzione dell’acqua e dell’energia elettrica. L’obiettivo, quindi, non era semplicemente risolvere un problema abitativo dettato dall’emergenza ma configurare un sistema che, impostando un borgo, ricreasse una comunità, desse un senso di speranza e di continuità a persone che avevano perso tutto.
L’idea si formalizza e Spadolini la presenta a Bernabei con un piccolo modello, per spiegarne l’ingegnosa concezione: una banale scatola da scarpe che si squadernava e si ampliava. Era in nuce il MAPI - Modulo Abitativo di Pronto Intervento, l’elemento costituente del SAPI - Sistema Abitativo di Pronto Intervento. A voler essere corretti, la sua precisa definizione sarebbe quella di MPL - Modulo base Pluriuso, visto che esso assume la denominazione MAPI, solo se usato nella configurazione di residenza.
Un volume a geometria variabile
Il MPL è il fulcro del complesso. È un parallelepipedo a geometria variabile proposto in due diverse dimensioni – una di 7,50 x 2,44 x 2,40 e una di 9,12 x 2,44 x 2,40 –, la variazione delle quali, ferme restando altezza e larghezza, è data dalla loro lunghezza. Tali misure, corrispondenti a quelle standard internazionali di un container, consentivano al modulo di viaggiare su treni merci, aerei e autoarticolati, senza dover prefigurare procedure di trasporto eccezionale. Il modulo, una volta collocato sul terreno e aperto, triplica il suo volume in modo da ottenere una superficie utile che varia fra i 55 e i 67 metri quadri.
La struttura del nucleo centrale è un telaio in lamiera di acciaio «realizzato da due longheroni con funzione di slitta, collegati fra loro trasversalmente da travi secondarie. A ciascuno dei longheroni sono collegate, mediante cerniere, due travi, estraibili […], sulle quali vanno ad appoggiare i pannelli di pavimento mobile. Sul telaio è posizionato il pianale destinato ad accogliere il pavimento. Al telaio slitta sono poi collegati dei portali rigidi realizzati in lamiera d’acciaio stampata a freddo e zincata. Sui portali longitudinali è fissata, mediante bulloni, la copertura a due falde realizzata con profili d’acciaio piegati a freddo. Le chiusure esterne sono realizzate mediante due lastre di resina poliestere insatura, polimerizzata e rinforzata con fibra di vetro (Prfv), accoppiata da uno strato di polisocianurato con funzione di isolante. I bordi dei pannelli sono chiusi da profilati in vetroresina».
Tale descrizione delle caratteristiche tecnologiche del sistema che ci fornisce il libro di Corrado Latina nella scheda descrittiva del SAPI [10] potrebbe apparire un po’ astrusa e riservata agli addetti ai lavori.
Cosa ci indica? Intanto la sua impostazione di prodotto industriale; poi la cura di progetto quando si allude ai “due longheroni con funzione di slitta”, che sono fondamentali per risolvere senza problemi l’operazione di traslazione del modulo dal pianale dell’autoarticolato al terreno; e ancora, nell’accenno alla copertura a falde, il desiderio di caratterizzare il modulo come un edificio, con il tratto abituale che lo contraddistingue, il tetto spiovente, appunto. Dobbiamo mettere in relazione questa soluzione alla precisa richiesta di Zamberletti di un ingresso arretrato e protetto, certo, anche se si rivela ulteriore segno di una connotazione partecipe dei sentimenti dell’utente. Ed ancora, le righe tecniche riportate ci indicano l’accuratezza nella previsione di ogni fase di espansione del modulo. Proviamo a spiegarla, aiutandoci con le fotografie rimaste, anche se sarebbe più semplice avere a disposizione il filmato che al tempo fu fatto, del quale si è però persa traccia [11].
Una volta posizionato sul terreno, il modulo viene aperto mediante la rotazione su cerniere delle diverse pannellature di cui è composto [12]. Il primo atto consiste nell’estrazione dal telaio di basamento delle travi sulle quali si andranno ad appoggiare, da un lato e dall’altro del modulo, le due pannellature che costituiscono le fiancate del modulo in fase di trasporto, in modo da creare la pavimentazione della versione ampliata.
Qui è necessaria una prima postilla. Cosa ci raccontano queste pannellature? Che Spadolini ha ben presente il problema che durante lo spostamento il MPL potrebbe subire qualche involontario danneggiamento. Facendo diventare le fiancate esterne del modulo pavimentazione, e per di più con la faccia esterna (nel trasporto) rivolta verso il terreno, ovviava alla necessità di un qualsiasi, possibile intervento di restauro. La seconda postilla è sul collocamento a terra delle travi estraibili. Il MPL, per essere funzionale dal punto di vista della sua messa in opera, non doveva richiedere opere di fondazione. Ecco giustificata la presenza di quattro grandi piastre metalliche alle estremità delle travi estraibili che, grazie ai loro martinetti, permettono il corretto ed equilibrato posizionamento del modulo, a dispetto dei fuori-piano del suolo, e garantiscono stabilità al modulo.
Completata questa prima, le fasi successive prevedono l’innalzamento, per ribaltamento, prima delle pannellature che andranno a costituire le facciate longitudinali del modulo (incernierate nella versione chiusa su quelle precedenti, di pavimentazione), poi quelle che costituiranno la copertura dell’espansione (incernierate nella versione chiusa sulla fiancata interna). Per il completamento dell’assetto è a questo punto necessaria l’uscita, per rotazione, delle quattro pannellature che andranno a definire la facciata anteriore e posteriore del modulo (incernierate nella versione chiusa sempre sulle fiancate interne). Postilla utile, di commento: come abbiamo visto le “facciate” esterne sono disposte in fase di trasporto all’interno del modulo. Dobbiamo immaginare le sue due fiancate longitudinali come fette sovrapposte di un sandwich che via via, aprendosi, vanno a completare l’insieme. Questo è il sistema che garantisce l’espansione del modulo, ma al contempo anche l’integrità in fase di trasporto delle componenti più delicate per la vita successiva dell’unità. Va anche detto che tutto l’impianto di movimentazione è manuale e non abbisogna di operai specializzati, bastando azionare un’unica manovella per ruotare in successione le diverse pannellature [13]. Non solo, che il tempo necessario per tutta l’operazione non superava i venti minuti.
Pierluigi Spadolini, Sistema SAPI: sezione del Modulo MPL/MAPI chiuso, 1982-‘84, Edil.Pro. (1978) Gruppo IRI-Italstat - Roma | Le fiancate longitudinali del Modulo evidenziano una sovrapposizione di strati a mo' di sandwich che consente, mediante una graduale apertura e rotazione dei diversi piani, il completamento dell’insieme plastico volumetrico finale. Ciò garantisce sia l’espansione del modulo, sia l’integrità, in fase di trasporto, delle componenti più delicate per la vita successiva dell’unità | © & courtesy Edil.Pro. Gruppo IRI-Italstat / Sicit - CE.ME.CO [x]
Moduli connetivi, arredi, impiantistica
Ora che abbiamo il nostro MPL in assetto di servizio, guardiamolo. Ha la configurazione di un edificio a un piano, con il suo tetto spiovente, l’ingresso definito e accogliente, finestre rettangolari con persiane scorrevoli. E l’interno? Va premesso che il MPL non viaggia vuoto. Al suo interno sono stipati i mobili previsti per la sua configurazione. Inoltre sul soffitto della sua parte centrale, in corrispondenza dell’ingresso, corre tutta l’impiantistica – di riscaldamento, elettrica ed idrico-sanitaria. Se il modulo è previsto per la destinazione abitativa porta anche il blocco cucina, predisposto sempre nella parte centrale. Esso contempla il lavello, il frigorifero, quattro piastre più forno, cappa e pensili, nonché gli arredi utili. Il bagno è sempre disposto nella parte centrale posteriore, ed è costituito da un blocco unico, prefabbricato, in materia plastica, completamente sostituibile alla bisogna grazie ad un accesso verso l’esterno, dedicato e protetto da una grata [14].
La composizione interna del MAPI è flessibile, prevedendo con tramezzi diverse possibilità di conformazione, per entrambe le versioni dimensionali, in modo da ospitare, garantendo sempre un ambiente di soggiorno e la zona notte, le diverse realtà familiari in essere.
Se invece il MPL ha destinazione diversa, ancora una volta i moduli sono forniti con la stessa impiantistica, con gli arredi utili, mentre il modulo bagno avrà una predisposizione diversa secondo necessità.
Ma non solo. Il sistema prevede anche due moduli connettivi, di dimensioni minori, che consentono, per avere organismi spaziali più ampi in rapporto alla destinazione d’uso, un’aggregazione di più MPL o di più MAPI: un’aggregazione lineare, utilizzando il modulo PL, o – servendosi del modulo MCO, dotato di quattro aperture che possono essere completate con serramenti o tamponate – una aggregazione cruciforme. Mentre però il PL serve solo da collegamento, il MCO, di grandezza pari al nucleo centrale del MPL (7,50 x 2,44 x 2,40), può, nel caso, assolvere funzioni proprie ed essere allestito in modo opportuno, divenendo a seconda della sua aggregazione di riferimento un laboratorio, una medicheria, un disimpegno.
Nella fase iniziale, in attesa della predisposizione di infrastrutture permanenti, era anche prevista la presenza di moduli di servizio semoventi (MSS) per fornire le opere di urbanizzazione primaria e per sopperire al fabbisogno energetico ed idrico. Ciascun MSS era costituito da due container fissati al pianale di un semirimorchio, in grado di servire dai dodici ai quindici MPL, appunto per il fabbisogno idrico, per quello energetico, per la raccolta di liquami e di rifiuti solidi, per creare strade pedonali e carrabili, nonché per creare l’illuminazione pubblica.
Ecco dunque completato il nostro SAPI, o meglio il nostro borgo destinato a durare tutto il tempo necessario alla ricostruzione effettiva dei luoghi in caso di calamità [15].
Riconoscimenti e impiego concreto del sistema
Il SAPI viene progettato in tempi rapidi, nonostante la sua complessità e il controllo da parte di Spadolini dell’ingegnerizzazione del progetto; viene realizzato un modello in legno in grandezza naturale del MPL da Luciano Franceschini, un abile falegname di Terni, per verificare i vari sistemi di ribaltamento; e poi viene approntato il prototipo da IPI System, un’azienda esperta in prefabbricati leggeri, che faceva capo all’Italstat. Nel frattempo per documentare l’impresa si coinvolge il regista Alessandro Cane e si dà vita a un filmato che racconta le fasi della sua installazione. Si decide poi la produzione, affidata dall’Italstat ad una società sua affiliata, la Edil.Pro. - Società per lo sviluppo di programmi di ricerca, di progettazione e coordinamento esecutivo per l'edilizia, costituita il 12 gennaio 1978 e con sede a Roma.
Il progetto è diventato prodotto, industriale. Come tale, si guadagna nel 1987 un Compasso d’Oro “per gli alti contenuti di immagine e di comfort ottenuti in una casa di pronto intervento per la prima volta concepita con un elevato livello di industrializzazione”. Mai menzione, seppur sintetica, fu così precisa.
Spadolini riesce nell’utopia di ogni architetto: costruire dal nulla una città. Realizza anche come industrial designer qualcosa che esula dal normale perimetro di un designer: costruire dal nulla una città.
Però la vicenda del SAPI nel suo prosieguo è triste, nonostante un inizio promettente.
Mai usato per le popolazioni terremotate dell’Irpinia, ha un primo impiego in uno stato federato dell’URSS, la Repubblica Socialista Sovietica Armena, colpita nel dicembre 1988 da un devastante terremoto con epicentro nella città di Spitak. Nonostante le tensioni della guerra fredda ancora in essere, si registrarono, in soccorso delle vittime, numerosi interventi umanitari internazionali, grazie anche all’appello del Segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov. L’Italia, con una missione organizzata dalla Protezione civile, dona all’Armenia, oltre a carichi di viveri e di medicinali, una piccola città attuata con il sistema SAPI. Vengono spediti via mare nel febbraio 1989 «196 moduli abitativi, 16 moduli di servizio, 40 container industriali e 13 container di tipo speciale», che avrebbero ospitato una comunità di mille persone, come attesta il quotidiano “la Repubblica” di allora [16].
Pare anche che l’insediamento fosse affiancato da un ospedale da campo, fornito dagli alpini di Bergamo, da un centro socio-sanitario per l’assistenza ai bambini, e da una scuola, forse anch’essi realizzati con moduli del sistema. Nacque così a Spitak il “Villaggio Italia”. L’affidabilità e la confortevolezza della struttura furono testate; anzi, crearono non poco imbarazzo agli organizzatori della spedizione per le prepotenti pressioni dei notabili politici del luogo, desiderosi di aggiudicarvisi un alloggio, scavalcando i più bisognosi. Circa la sua durata nel tempo, a dimostrazione quindi della conseguente possibilità di essere riutilizzato per una nuova emergenza una volta concluso il suo precedente impiego, ci viene in soccorso la presentazione di un libro, edito recentemente [17], che ci conferma che il Villaggio Italia a Siptak è tuttora esistente.
L’articolo de “la Repubblica” ci fornisce altre due utili indicazioni. La prima riguarda la sperimentazione in corso di “un nuovo tipo con struttura portante in alluminio e con un peso ridotto (sei tonnellate) per consentirne il trasporto anche con elicotteri”, a confermarci che la ricerca progettuale sul MPL di Spadolini continuava, come l’investimento dell’Italstat nel renderlo ancor più competitivo. L’altra riguarda il suo costo “approssimativo”, indicato sui cento milioni di lire a modulo, una cifra consistente ma, tutto considerato e messo in conto, molto accettabile, che quindi non giustifica l’oblio che l’ha investito.
Un epilogo amaro
Come si spiega allora che sul SAPI si sia steso un velo di silenzio?
Su di esso hanno pesato le vicende subite dall’IRI con la presidenza di Romano Prodi, che fra le tante operazioni mette in liquidazione l’Italstat nel 1991, nonostante che la presidenza Bernabei avesse portato il suo capitale sociale a mille e cinquecento miliardi di lire e il suo fatturato annuo a seimila miliardi di lire. Con la solita modalità italiana gattopardesca, l’Italstat viene acquisita da Iritecna-Società per l'Impiantistica Industriale e l'Assetto del Territorio, mentre Bernabei lascia il suo incarico per fondare una propria società di produzione televisiva, la Lux Vide. A sua volta Iritecna, dopo appena pochi anni, nel 1994, viene messa in liquidazione e rilevata da Fintecna-Società per l’Impiantistica Industriale e l’Assetto del Territorio che la ristruttura mettendo in atto un programma di privatizzazioni. In questo balletto Edil.Pro., concessionaria dei brevetti del SAPI e della sua produzione, verrà fusa nel 1995 in Fintecna e poi messa in liquidazione.
Non è chiaro come il catalogo prodotti detenuto da Edil.pro. passi a Sicit, con sede a Pennabilli, altra azienda, attiva nella prefabbricazione, dell’Italstat, poi passata in Iritecna che tenta di liquidarla già nel 1993 [18]. La Sicit viene acquisita (con il suo stabilimento e il suo catalogo) nella seconda metà dell’ultimo decennio del secolo scorso dalla CE.ME.CO di San Severino Marche, nata all’inizio degli anni Ottanta del Novecento con un profilo rivolto alla prefabbricazione in cemento armato. L’intento è di potenziare la sua presenza sul mercato del settore, come dimostrerebbero le coeve acquisizioni di altre aziende della zona: la Lorev di Fabriano, che produce macchine e impianti per la lavorazione del calcestruzzo, e la GF di Appignano, che si occupa di produzione di infissi.
Il nuovo gruppo, che mantiene in essere indifferentemente le denominazioni di Sicit e di CE.ME.CO, è proprietario dei diritti sul SAPI e ha continuato a presentarlo – sotto il cappello ora di Sicit, ora di CE.ME.CO – in brochure aziendali e anche in Rete, dichiarando di averlo messo in esercizio nelle alluvioni nel Nord-Est dell’Italia e nel terremoto avvenuto in Umbria e nelle Marche nel 1997 [19]. Ovviamente senza nessun riconoscimento al suo progettista o alla sua storia. Inoltre ha implementato il modello originario con una versione MAPI-H destinato ad uso specificatamente ospedaliero, di ambulatorio polifunzionale. Di fatto un MPL nella sua versione più piccola, dotato di arredi dedicati alla sua destinazione d’uso, ma con un secondo ingresso per barellati e disabili, pensato per insediamenti nei cantieri, nei posti di frontiera, in villaggi del Terzo Mondo, o in situazioni emergenziali, come è avvenuto a Macugnaga nel 2000 in seguito a una frana che ha isolato il paese e altre sette frazioni dei dintorni.
In seguito a quest’intervento la Protezione civile della Val d’Aosta ha chiesto nel 2005 alla CE.ME.CO lo studio di una sua versione elitrasportabile, che ha determinato la nascita del MAPI AOSTA, risolto con uno studio che prevede il suo trasporto a settori e la possibilità del loro posizionamento calandoli dall’alto. L’ufficio tecnico della CE.ME.CO mi ha confermato che dopo il 2010, in seguito al nuovo dimensionamento imposto dalla Protezione civile ai moduli abitativi d’emergenza (6x2,50 da chiusi), il MPL ha perso ogni interesse di mercato.
Si conclude, con molta amarezza, la vicenda di un bel progetto, sicuramente il migliore di Pierluigi Spadolini designer, nato dalla sinergia di tre intelligenze, che per motivi diversi avevano a cuore le sorti del paese, e demolito dalle vicende di una politica non sempre illuminata. Poco noto agli storici del design, non ha avuto nemmeno quel riconoscimento intellettuale che meritava, come la ristretta bibliografia che qui si acclude attesta. La scatola da scarpe con cui ironicamente è partito meritava, sicuramente, un destino migliore.